I Serenissimi, 15 anni dopo
Paolo Rumiz su Repubblica racconta il suo incontro con quegli uomini che, in nome dell'autonomia del Veneto, scalarono il campanile di San Marco a Venezia
Nei giorni degli scandali che coinvolgono la Lega Nord, Paolo Rumiz si è seduto ad un tavolo con alcuni di quegli uomini che il 9 maggio di quindici anni fa, in nome dell’autonomia del Veneto, assaltarono il campanile di San Marco per innalzare la bandiera con il leone di Venezia. E con loro “ragiona” di quei giorni, della Lega Nord, di Umberto Bossi: di quel sistema di “occupazione del potere” che “fa rimpiangere la vecchia DC”.
Una strada di pioppi nel buio, oltre le magnifiche mura guelfe di Montagnana. Lontano, le luci dei Colli Euganei e, più oltre, il grande nulla della Bassa padovana e del Polesine verso la foce dei fiumi del Nord, là dove Brenta, Adige e Po creano un immenso spazio franco che non è acqua né terra né Veneto né Emilia.
E forse nemmeno Italia. In fondo a quella strada, una villetta con giardino con accanto un garage. Dentro, un’ombra dal forte odore di ferro e vernice, simile a quella di un trattore, ma più compatta. È il “blindato serenissimo” che quindici anni fa, il 9 maggio, sbarcò davanti alle Procuratie per assaltare il campanile di San Marco e innalzarvi la bandiera col leone di Venezia.
È tornato a casa, nel nido dove nacque, il “tanko” del kommando che quella notte mandò in tilt l’intero sistema di sicurezza dello stato unitario, facendo volare nel mondo la rivendicazione di un Veneto autonomo. È di nuovo lì, con le sue dodici tonnellate e la targa “VT MB”, veneto tanko Marcantonio Bragadin; lì dove venne costruito segretamente in un capanno in mezzo alla pianura, lontano da occhi indiscreti. Sono passati gli anni, tutti i tredici imputati hanno scontato le condanne inflitte per direttissima, molti di loro si sono divisi, il venetismo stesso sembra andare in frantumi nel patatrac della frana leghista, ma il nucleo degli irriducibili è rimasto, fedele alla sua idea, attorno a quel simbolo e quella bandiera.
Rieccoli, nel buio della piana veneta, Flavio Contin e suo nipote Christian, rispettivamente il “vecio” e il “bocia” del gruppo. Riecco Gigi Faccia, il duro, la mente del kommando, l’ideologo del Veneto autonomo. Con loro, attorno a una bottiglia di bianco euganeo detto Serprino, anche Ettore Beggiato, segretario dell’Unione Nordest in consiglio regionale, che quindici anni fa suonò la campana della solidarietà per i “parioti” in galera, raccogliendo in pochi mesi duecento milioni di lire dalle mani del popolo veneto. Rieccoci a ragionare con loro di quei giorni straordinarie anche del futuro dell’idea, sotto una riproduzione della famosa tela sulla battaglia di Lepanto esposta nel duomo di Montagnana. Ce l’hanno con Roma, ovviamente, che ha riscritto la storia gloriosa della repubblica veneta, degradandola a “repubblichetta dedica al vizio e a eterni carnevali”. Ma gli ultimi Serenissimi ce l’hanno soprattutto con la Lega che, con la fanfaluca della Padaniae della secessione, ha distolto il popolo dalla battaglia – assai più praticabile – per l’autonomia del Veneto.