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  • Giovedì 19 aprile 2012

Il ritorno dei morti

"I primi tornarono a nuoto", un mondo pazzesco e ipnotico raccontato nel nuovo romanzo di Giacomo Papi

di Giacomo Papi

CAPEL CURIG, UNITED KINGDOM - JUNE 30: Lady Alice Douglas swims in Llyn Mymbyr in the shadow of the Snowdon Horseshoe in North Wales on June 30, 2009 in Capel Curig, United Kingdom. Lady Alice has been swimming in lakes and rivers since she was a child and often takes a plunge with her children in the wild waters around her home in the Snowdonia foothills. Swimming in wild rivers and lakes is gaining in popularity across Britain with maps and books detailing the locations of the wildest outdoor swims. (Photo by Christopher Furlong/Getty Images)
CAPEL CURIG, UNITED KINGDOM - JUNE 30: Lady Alice Douglas swims in Llyn Mymbyr in the shadow of the Snowdon Horseshoe in North Wales on June 30, 2009 in Capel Curig, United Kingdom. Lady Alice has been swimming in lakes and rivers since she was a child and often takes a plunge with her children in the wild waters around her home in the Snowdonia foothills. Swimming in wild rivers and lakes is gaining in popularity across Britain with maps and books detailing the locations of the wildest outdoor swims. (Photo by Christopher Furlong/Getty Images)

La sera in cui la morte tornò, gli alberi del viale che Adriano Karaianni percorreva ogni giorno per andare in ospedale si ricoprirono improvvisamente di fiori. Al mattino non li aveva notati, i rami erano ancora spogli, ed era strano perché di solito la primavera arriva di notte, quando dormono tutti. L’inverno finiva. Il verde scattò, le auto si rimisero in moto, e l’aria fredda che filtrava da fuori gli sembrò di colpo più nuova. Rabbrividì. Da sempre le cose che iniziano gli facevano paura.

Il giorno precedente, durante la prima ecografia, aveva provato la stessa inquietudine. Maria era incinta da quindici settimane, ma il cuore del bambino batteva già in modo furioso. Sul monitor si vedeva soltanto una specie di girino addormentato. Poi la ginecologa aveva alzato il volume e dalle casse era uscito un fruscio così fragoroso che si era chiesto come facesse un cuore di neanche un millimetro a essere già così vivo.
A quell’ora, il traffico era un groviglio di creature metalliche e semafori. Un istante prima che si togliesse il camice, Maria lo aveva chiamato per ricordargli di comprare il latte. Era tardissimo, ma forse il supermercato era aperto. Si guardò nello specchietto. I capelli erano già grigi. Aveva compiuto trentotto anni da un mese. Un gigante alto quasi due metri e pesante un quintale. Il bambino lo avrebbe visto così. Accese l’autoradio. Dietro di lui qualcuno suonò il clacson. Si rimise in movimento. Alla fine della strada, sulla sinistra, dopo una rotonda, vide l’insegna gialla. Le vetrine erano ancora accese e c’era un posto libero, non doveva scendere nel parcheggio sotterraneo. Si avviò a passi veloci nel portico, superò i carrelli e varcò l’ingresso. Un uomo in giacca e cravatta, due guardie giurate e una cassiera in grembiule, in piedi davanti alle casse, si voltarono a guardarlo.
– È aperto? Devo prendere solo una cosa, faccio in un attimo.
– Rimanga lì che gli blocchiamo l’uscita.
– Gli blocchiamo a chi, scusi?
– C’è un vecchio tutto nudo che non si fa prendere. Salta come un indemoniato.
– Come tutto nudo? Sono medico, magari sta male.
Un frastuono violento giunse dal fondo. Qualcosa di pesante era crollato. L’uomo in giacca e cravatta alzò la mano sinistra indicando verso il banco della gastronomia. Adriano notò che gli mancava una falange dell’anulare.
– Eccolo! L’ho visto! È là in fondo.
Una delle guardie scattò. Anche gli altri si mossero. Adriano sentì dei passi attutiti, rapidi.
Fu in quell’istante che, per la prima volta, lo vide. Se ne stava là in piedi, immobile, a non più di cinque metri da lui. Nudo, dentro un corpo consunto di vecchio, magro e pallido come una betulla d’inverno. Aveva lo sguardo spaurito di uno catapultato in un altro universo. Lo guardò. Si guardarono. Sosteneva il suo sguardo, perplesso e incuriosito, ma pronto alla fuga. La guardia comparve correndo in fondo alla corsia. Le chiavi gli battevano sulla coscia. Ma si arrestò.

Adriano fece per parlare. Il vecchio tese i muscoli. Si rintanò nelle spalle, piegò un po’ le gambe ed esplose un salto da scimmia in avanti, poi uno a sinistra, il piede destro come perno, per issarsi sulla parete che lo separava dalla seconda corsia, le mani avvinghiate all’ultimo scaffale, l’altra gamba che cercava un appoggio per scavalcare.
– Scappa di nuovo!
La guardia gli si aggrappò alle gambe con tutto il suo peso. Adriano urlò.
– Ma cosa fa? Non vede che gli fa male?
Anche la seconda guardia gli si era buttata addosso e cercava di tirarlo giù.
– L’ho preso! Ce l’ho! Aiutami.
– Molla quello scaffale. Lasciati andare!
Il vecchio emise un suono flebile e acuto, da grande insetto ferito. Arrivarono anche il direttore e la cassiera. Adriano tentava di farli ragionare, ma nessuno lo ascoltava. Il prigioniero abbandonò la presa e si lasciò cadere all’indietro tra le braccia della prima guardia. Sembrava la carcassa magra di un bue. Il gioco era finito. La caccia all’uomo aveva condotto alla cattura di una preda ridicola. La cassiera avvicinò una scaletta e gliela porse come sgabello.
– Si sieda, adesso, su, si calmi, faccia il bravo.
Il vecchio ubbidì. Abbassò la testa sul petto e sollevò gli occhi a guardarli, poi sommessamente si mise a ridere tra sé scoprendo un arco gengivale infiammato e privo di denti. Accavallò le gambe per nascondere il sesso. La tempia sinistra appariva tumefatta. Doveva aver preso un colpo durante la lotta. Adriano si avvicinò.
– Si sente bene?
– Sto bene, sì. Però ho molto caldo.
– Ve l’ho detto, sono un medico, posso vedere?
Era soltanto un’ecchimosi, per quanto estesa, ma l’età e il luogo della lesione consigliavano un controllo. L’uomo si fece visitare. Era quasi calvo, ma aveva i pochi capelli incredibilmente lunghi. Anche le unghie delle mani e dei piedi sembravano non essere state tagliate da anni.
– Si ricorda come si chiama?
– Serafino Currò.
– E dove abita, signor Currò?
– Qui vicino, quasi di fronte, al civico 3.

*****

Incamminandosi verso la casa del vecchio, Adriano si accorse di avere dimenticato di prendere il latte. Da quando Maria era rimasta incinta il suo corpo si stava arrotondando, dentro le avveniva una rivoluzione, un minuscolo ovulo si era diviso e da quell’istante continuava a frangersi all’infinito in un’esplosione ordinata. È incredibile come tutte le cose, anche i prodigi, sembrano normali se avvengono. Una volta aveva letto che se gli esseri umani continuassero ad aumentare di volume al ritmo con cui lo fanno dal momento della fecondazione fino ai primi sei mesi di gravidanza, a settant’anni saremmo grandi come pianeti. Si immaginò rotondo, identico a Giove, che rimbalzava nel giardino dell’ospedale e gli venne da ridere. Passarono due ragazze. Ridevano anche loro.
Respirò e sentì l’odore del fiume che scorreva poco lontano. L’aria che gli scendeva fredda nei polmoni non era più quella dell’inverno. Sentiva che era cambiata stagione e che l’universo si stava svegliando. Era quel giorno che arriva ogni anno in una data variabile di inizio primavera in cui le donne escono dagli armadi trasformate in fiori o farfalle. Erano dettagli. Apparizioni. Una rinascita sospesa. Un lembo di pelle rosa intravisto in un bar, un neo posato su un collo sottile, e ovunque gambe femminili che misurano i marciapiedi come compassi.

Alzò gli occhi. La luna nel cielo tra le case, bianca come uno specchio, era la stessa di sempre. La stessa dei dinosauri, la stessa che volava indifferente nel cielo la notte in cui era risuonato il primo battito del primo cuore e in cui un uomo si era innamorato per la prima volta. La luna scortava la vita degli uomini nati e morti sulla Terra dall’inizio dei tempi, c’era quando lui era venuto al mondo e quando era nata Maria, era presente al loro incontro e avrebbe visto nascere il bambino. Ovale, non piena, sembrava una faccia di tre quarti su cui le macchie scure disegnavano una maschera. Erano deserti e montagne. Da piccolo studiava spesso la mappa sull’Atlante: il Mare delle Crisi, del Nettare, del Margine, del Freddo, dell’Umido e delle Nubi, il Lago dei Sogni, l’Oceano delle Tempeste, la Baia della Rugiada e degli Arcobaleni. L’Isola dei Venti, il Muro Dritto, la Penisola dei Deliri, la Palude del Sonno. Si domandava chi avesse inventato quei nomi meravigliosi. Guardò in alto di nuovo. Ancora bassa, adagiata su una coperta di nubi che trapassava con violenza, dava l’illusione di girare a mezz’aria tra quelle e la terra. Per avvicinarla allungò un braccio, ma il vento, che spingeva le nuvole a est, sembrava farla scivolare a ritroso nel cielo. La prima sera Maria si era voltata verso di lui con un’espressione di meraviglia.
– Secondo te non si stufa a girare?
– È un lavoro monotono, però lo fa soltanto di notte, magari poi di giorno si diverte.
– Dev’essere noioso esserci sempre.

Maria parlava poco e usava poche parole, però sapeva sempre cos’era giusto o sbagliato. Era ancora capace di piangere e ridere, scoppiava in lacrime per un albero di arance tagliato in cortile e poteva trovare irresistibilmente comico il riportino del pianista a un concerto di musica classica. Per lei la realtà andava in scena sempre per la prima volta e l’abitudine non poteva dissipare la possibilità delle cose di essere nuove in eterno. Era lontana in modo così naturale e luminoso da sembrargli presente.
Arrivò al punto in cui la strada curvava. Il numero 33 stava sull’altro lato. Un grande palazzo sgraziato costruito in fretta nel dopoguerra, quando per fare case e figli non occorreva pensare. La luce bianca dei lampioni non nascondeva il giallo scrostato dei muri. Il citofono era di quelli vecchi, con tante targhette. C’era di tutto: cognomi meridionali, arabi e spagnoli, iniziali misteriose, acronimi, studi di architetti. Currò Umberto si trovava a metà dell’ultima fila. Adriano schiacciò il pulsante con l’indice e aspettò dieci secondi. Provò di nuovo, ma non accadde nulla. Spinse. Il portone di legno rovinato era aperto.
Nel cortile un’aiuola di ortensie già in fiore ospitava una approssimativa cappelletta con una madonnina di gesso. Le erbacce erano ovunque, pur di crescere avevano spaccato il cemento. In giro non si vedeva nessuno e le finestre erano tutte spente. La scala A era la prima sulla sinistra, il portoncino di acciaio scuro e vetro smerigliato era tenuto aperto da un cuneo di legno sul pavimento. Dentro era buio. Si vedeva soltanto la lucina rossa dell’ascensore. C’era odore di disinfettante e silenzio. Neppure il rumore di una tv. L’ascensore si trovava già al piano. Entrò, premette il 6 e sfiorò senza ragione con il polpastrello i puntini del Braille sul tasto.
Il sesto piano erano tre porte e un pavimento in marmo consumato. La lampadina doveva essere fulminata. Per avere un po’ di luce e leggere, riaprì gli sportelli dell’ascensore. Ma sulle porte non c’erano nomi. Decise di suonare a caso. Dopo qualche secondo sentì dei passi arruffati e lenti, e un chiavistello che scattava. Gli aprì un uomo macilento di almeno novant’anni, molti più del vecchio del supermercato. La luce che proveniva dall’interno dell’appartamento lo illuminava da dietro lasciandogli il viso in penombra.
– Buonasera, scusi se la disturbo a quest’ora, mi chiamo Adriano Karaianni, sono un medico.

L’uomo lo guardava stupito, sembrava essersi appena svegliato o che avesse appena finito di piangere. Non diceva niente, incapace di muoversi.
– Il signor Serafino Currò abita qui?
Il vecchio continuava a fissarlo senza rispondere.
– Il signor Serafino mi ha chiesto di avvisare suo figlio che stava andando al Pronto soccorso per un controllo. Sentì la voce dell’altro. Sussurrava. Non si era accorto
che le sue labbra si erano mosse.
– Gli è successo qualcosa?
Il vecchio lo chiese in fretta, quasi in falsetto, come se un po’ ci sperasse.
– No, non esattamente, non si preoccupi. Nulla di grave. Ha fatto un po’ il matto al supermercato qui di fronte, io passavo di lì, ho notato un’ecchimosi sulla tempia sinistra e da un esame sommario, insomma, ho ritenuto che fosse meglio approfondire. Niente di grave, ripeto, ma sa, alla sua età, non si sa mai.
– Torna stanotte?
– Non lo sappiamo ancora. Lei è il fratello?
– No.
L’uomo si scansò per farlo entrare. Il lungo corridoio si apriva su stanze buie, identiche per dimensione. Il pavimento era di mattonelle chiare screziate di macchie blu e bordeaux, sui lati una sponda più sottile formava una greca. La libreria in corridoio era stipata di roba da mangiare. Pacchi di pasta, barattoli di legumi e scatole di tonno, conserve. Una colonna di confezioni d’acqua toccava il soffitto. Si sentiva un insopportabile odore di chiuso. Per non finire addosso all’altro che gli faceva strada all’interno, Adriano era costretto a rallentare ogni passo. Lo sentiva sospirare, respiri profondi di asma o di angoscia. Sulla porta della camera alla fine del corridoio si voltò.
Era pallido. Le parole gli uscirono di bocca in un borbottio quasi incomprensibile.
– Me lo sono trovato davanti in cucina. Io sono vecchio e non sto bene, non ho la forza nella testa. Ho paura. È tornato due giorni fa.
– Tornato chi?
– Mio padre.
Adriano smise di respirare. Non capiva. Ascoltò la propria voce.
– Lei è il figlio allora?
– Non lo so da dove è tornato. Ma prima non c’era. L’uomo sgattaiolò in camera, aprì l’armadio e tirò fuori una grande valigia di cuoio in cui cominciò a infilare pigiami, vestaglie, paia di calze appallottolate, canottiere e mutande che estraeva da un comò alla sinistra del letto matrimoniale. Adriano si era fermato sulla soglia e osservava la scena. Sui comodini c’erano due brutte lampade gemelle con il paralume di tela arancione e una sveglia di latta. Sui muri tappezzati di carta da parati a fiori erano appese file di foto di famiglia incorniciate. Per guardarle meglio, entrò nella stanza. Non sapeva dire perché, ma avvertiva qualcosa di sbagliato in quelle immagini. Riconobbe Serafino Currò in una delle poche a colori. Dimostrava più o meno la stessa età di adesso. Sedeva all’aperto su una poltrona di vimini con un paio di orrendi pantaloni rossastri a zampa di elefante. In piedi, dietro di lui, si vedeva un uomo un po’ curvo di una cinquantina d’anni. I colori erano saturi come nelle foto di Adriano da bambino. Per leggere si chinò: «Umberto e Serafino, Pasqua 1974». Spostò lo sguardo sul vecchio che continuava a fare i bagagli. Come poteva essere il figlio? Tornò alle fotografie.

In un’immagine datata 1926 compariva un bambino di un anno. La famiglia era su una spiaggia, stavano seduti sulla sabbia e davano le spalle al mare sorridendo in direzione del fotografo. La didascalia diceva: «Umberto con mamma e papà, 1926». Mamma e papà erano un uomo sui trent’anni e una donna in costume intero con una faccia sottile in cui galleggiavano, quasi accennati, come minuscoli segni, gli occhi, il naso, le labbra. Il terzo era un bambino dall’aria triste che abbracciava la donna. Adriano passò ad esaminare la foto di un giovane soldato che piangeva in un teatro di posa. In un’altra foto con lo stesso sfondo, realizzata evidentemente nello stesso studio, il soldato stringeva un paio di guanti nella sinistra e teneva la testa scostata di lato, con un’espressione adorante negli occhi in direzione di qualcuno fuori dal quadro. Si avvicinò per leggere le didascalie scritte a mano. In piccolo, qualche centimetro sopra il bordo inferiore della cornice, c’era scritto: «Tenente Serafino Currò». Ma le date erano diverse: quella in cui piangeva era del febbraio 1919, l’altra dell’ottobre 1917. Avvertì dietro di sé la presenza dell’altro. Anche lui stava fissando le foto.
– Questo soldato è il signor Serafino?
L’uomo aveva un’espressione di terrore. Muoveva le labbra, ma non riusciva a parlare.
– Sì, è mio papà.
– Lì dovrebbe avere vent’anni, più o meno.
– Sì, venti. Ma non lo so di preciso.
– Scusi, ma se nel 1919 aveva vent’anni, oggi dovrebbe averne più di centodieci. Com’è possibile?
Umberto Currò iniziò a farfugliare camminando nella stanza.
– Ho sempre vissuto da solo, io. Non mi sono mai sposato. Ho fatto matematica, prima. Le avevo detto che sono malato di nervi e non ho più forza nella testa.

Il vecchio si precipitò a chiudere la valigia. Adriano si avvicinò al comò. Era ingombro di album, ritagli di giornale, una distesa di oggetti sepolti: cartoline da località passate di moda da decenni, coltellini con il manico in madreperla e la scritta Edelweiss, taccuini ingialliti, un pulcinella in corallo arancione. Prese un album di fotografie datato 1900, la copertina in cuoio e i fogli in cartoncino nero. Lo aprì. In una delle prime pagine, sulla foto di un bambino pieno di boccoli, una grafia femminile aveva tracciato le parole «Serafino, sognando caramelle…» Più in basso, fissata con un pezzo di nastro adesivo, una bustina di carta oleata. Seguendo l’impulso, senza farsi vedere, la staccò e se la ficcò in tasca. Sentì che alle sue spalle l’altro aveva ripreso a respirare in modo affannoso.

– Quanti anni mi dà, dottore?
– Ottanta, credo.
– E mio padre? Quanti anni dimostra per lei?
– Non so, la stessa età.
– Sì, la stessa età. Sa quando era nato mio papà? Nel 1897 è nato mio papà, lei aveva ragione, dovrebbe essere morto.
– Come, scusi?
– E infatti era morto.
Umberto Currò aprì un cassetto del comò, cercando qualcosa.
– Ecco, guardi, ora lo trovo, era qui. Aspetti, dottore…
– Come, era morto?
– Eccolo, guardi.
Gli porse un foglio di carta ingiallita piegato in due. Adriano lo aprì. Era il certificato di nascita di Currò Serafino Alvise, 5 giugno 1897, figlio di Domenico e Malinverni Speranza.
– Ma non dimostra niente, scusi. Potrebbe essere falso oppure di uno che ha lo stesso nome.
– È di mio padre, invece, signore. Lui era morto. Questa è la verità. Guardi, aspetti.
Si rimise a frugare dentro il cassetto.
– Adesso le trovo l’atto di morte. Sa quando è morto mio padre? Era morto l’11 gennaio 1979. E l’altro ieri sono in cucina e me lo trovo davanti dopo trent’anni che gli ho fatto il funerale, nudo, come se niente fosse, tale e quale al giorno in cui l’ho seppellito. Mi crede, dottore, adesso? È normale che i morti ritornino e siano uguali a noi vivi?

******

I primi tornarono a nuoto la notte del secondo giorno. A sciami, nelle ore disabitate, entrarono in acqua dai porti addormentati, dai moli senza nome, dalle anonime rive di melma ed erba dimenticate sulla terraferma, e nuotarono lenti in mezzo alla laguna illuminata e oscurata a intermittenza dalla luna e dalle nuvole, uscirono dal mare come granchi o come rane, arrampicandosi sui pali, sulle barche ormeggiate, sulle scale intagliate nella pietra e invasero le isole. Per molte ore nessuno li vide.
La mattina di sabato Adriano e Interminelli trovarono il ponte bloccato. Per arrivare all’imbocco impiegarono più di mezz’ora. I rinati si accalcavano intorno ai soldati e alle macchine in coda. Toccavano la carrozzeria e i finestrini chiusi. Le automobili procedevano a passo d’uomo, tra le persone. Ogni pochi metri qualcuno da fuori chiedeva di essere preso a bordo per passare il posto di blocco. Il telefonino di Interminelli suonò. Il funzionario rispose e ascoltò in silenzio, la faccia terrea. Attraverso la calca, oltre il guardrail, Adriano riuscì a vedere il mare. Il cielo era ancora biancastro, la laguna petrolio, era incendiata dal riverbero del sole. Là in mezzo, nell’acqua, tra motoscafi e navi mercantili, distinse un pullulare di puntini neri.
– Li vede anche lei, dottore?
– Cosa sono?
– Chi sono? Rinati. Raggiungono la città a nuoto. Hanno incominciato stanotte, mi hanno appena detto al telefono. Non l’avevamo previsto.
– È meglio che partiamo adesso, torniamo, non ha senso rimanere.
– Oggi è una giornata importante, dottore, e io ho delle cose da fare. Se vuole un passaggio stasera, faccia il bravo.
In città nessuno camminava più. Nelle calli si avanzava in fila indiana, le piazze traboccavano e in ogni strada, in ogni corte, gli esseri umani tentavano di sottrarsi alla ressa montante. Il tempo stava diventando infinito, ma lo spazio era terminato per tutti. Se n’era andata via l’aria, sempre più affollata di odori che si intrecciavano e combattevano, rendendo faticoso il respiro. Per evitare i ponti ingolfati, per non aspettare traghetti che non sarebbero mai arrivati, i rinati si buttavano nei canali e nuotavano come creature anfibie, in direzione di una sponda o dell’altra.
La terza ondata era arrivata.

Verso le nove, i posti di blocco del ponte vennero travolti. In file infinite, passo dopo passo, trascinando i piedi, schiacciato contro corpi di uomini e donne sudati, grondante anche lui, ormai indistinguibile dai rinati, ormai indistinguibili tutti, vivi e morti, Adriano provò e riprovò a telefonare a Maria, via via più agitato al pensiero di ciò che sarebbe potuto accaderle. Alle dieci, per pochi secondi, riuscì a sentire la sua voce. Ma la linea cadde subito. Lei fece in tempo a dirgli di stare tranquillo, che all’ospedale era tutto normale.
Adriano cercava di non staccarsi da Interminelli. Quello continuava a ripetere che avevano appuntamento con John.
Era la festa dei pazzi.
Nella ressa la gente rideva e si picchiava. Qualcuno si accoppiava. Addosso all’inferriata di un ponte, un ragazzo tentò di baciare una vecchia che cadde nell’acqua sghignazzando.
Una donna e un bambino, ma forse era un nano, arrampicandosi sul cornicione di un palazzo, scavalcarono un balcone e forzarono le finestre in cerca di uno spazio da occupare. Era una moltitudine oleosa, che si spandeva nella città saturandone ogni angolo, ogni metro, ogni nuovo anfratto conquistato dall’euforia del ritorno. Nessuno temeva più la morte.
Cercò di nuovo di convincere Interminelli a partire subito, ma quello rispondeva che prima avevano una cosa da fare. Soltanto dopo l’incontro con John, continuava a ripetergli con un tono da invasato, soltanto allora si sarebbero levati gli aerei, l’esercito si sarebbe messo in moto e la resa dei conti avrebbe finalmente avuto inizio. Quello schifo innaturale che bestemmiava Dio e l’uomo sarebbe stato soffocato nel sangue dei morti. Glielo bisbigliò all’orecchio mentre erano bloccati contro una colonna e Adriano sentì addosso l’odore. L’entusiasmo di Interminelli per l’incontro con Ametrano era assoluto, così Adriano non gli disse di averlo incontrato il giorno prima al museo. Non gli disse che era un rinato.
Due o tre volte scambiarono qualche parola con i vicini di calca. Tutti erano coscienti che stava avvenendo qualcosa di irreparabile. «È la terza ondata». Ma la gente sperava che altrove non fosse così. Che altrove l’invasione non fosse ancora arrivata. Cercò di crederci anche lui, ma non riusciva a smettere di pensare a Maria. Forse i rinati si stavano concentrando lì, in quella città, in quel momento, perché quello era il luogo dove tutto si sarebbe deciso, forse in ospedale la situazione era davvero ancora normale. Iniziarono a volare gli elicotteri della protezione civile. Si abbassarono a gettare acqua per rendere il caldo più tollerabile a chi era intrappolato là sotto.

A un tratto, mentre sgomitava per conquistare un varco, Adriano si sentì chiamare.
– Dottore! Dottore!
Cercò una faccia conosciuta nella marea di teste.
– Dottore! Sono io! Sono qui! Da questa parte!
Scorse una mano agitarsi al di sopra dell’orizzonte vivo che lo cingeva da ogni lato. La mano avanzava, tagliando il groviglio, spintonando, spostando a forza, schivando, e dopo qualche minuto se lo trovò davanti. Era Michelangelo Lopez.
– Non credevo mica di farcela, dottore.
Interminelli non lo riconobbe neppure. Il ragazzo, in pantaloncini e canottiera, sorrise. Adriano lo abbracciò. Gli girava la testa. Gliela appoggiò sulla spalla. Poi si tirò indietro.
– Come mai sei qui, Michelangelo?
– Lo sente come parlo bene, adesso, dottore? Sono stato anche alla televisione.
– Sai niente di Maria?
Non sapeva nulla. Il medico lo attirò di nuovo a sé, poi lo lasciò andare. La fiumana lo trascinava via lentamente. Sapeva, il corpo di Adriano sapeva che quello era un fiume e che doveva seguirlo, tenendosi attaccato a Interminelli che aveva le chiavi dell’auto, attento a ogni ramo sporgente, a ogni masso affiorante, per aggrapparsi e lottare. L’afa dilagava, anche i muri delle case sembravano sudati, e nell’aria immobile il tempo sgocciolava se stesso in un universo rallentato, ingolfato dalla mancanza di spazio. La ressa confondeva ogni cosa. Ben presto anche i vivi iniziarono a denudarsi. Adriano si ritrovò a torso nudo, giacca, camicia e cravatta dispersi sotto i piedi degli altri.
La mattina diventò mezzogiorno e il mezzogiorno diventò pomeriggio, con l’avanzare del caldo e della fatica, e il rallentare dei movimenti, le differenze tra nati e rinati sfumarono in un grumo indistinto di membra umide e calde, di corpi bagnati. Un’immensa distesa di carne nuda colava in ogni vena della città. I gabbiani continuavano a urlare come in un giorno qualunque.
Lentamente giunse il tramonto e il sole sparì dietro i tetti. Il sudore si asciugò depositando sulla pelle il fresco appiccicoso di quando si smette di ballare. Comunque, avanzavano. Tra negozi chiusi e portoni sbarrati. Intrappolati in strettoie sconosciute, liberati in piazze improvvise. Dal cielo rosa gli elicotteri lanciarono cibo, ma i pacchi vennero afferrati e inghiottiti ancora prima di toccare terra da migliaia di mani e di bocche. Procedevano con immensa fatica, pochi metri al minuto, ma alle otto di sera Adriano e Interminelli erano arrivati alla piazza dell’appuntamento con Ametrano. Il funzionario era agitatissimo, sempre più ossessivo ma pieno di fiducia, contro ogni evidenza. Pretendeva di raggiungere un palazzo alla loro destra da cui li dividevano altri cento metri di folla densa, esasperata e aggressiva.
Nel centro della piazza, la gente aveva divelto un’edicola e stava facendo un falò per avere più spazio. Le fiamme si alzavano e quelli ridevano, illuminati dal fuoco. Era una piazza quadrata con una specie di penisola a L composta da una fila di case più basse. Sulla sinistra, davanti alla luna, pendeva una torre sghimbescia. Forse affondava. Tutto in quel posto pesava sul fango. Adriano sentì la terra con la pianta del piede e il lastricato gli sembrò di gomma. Interminelli era l’unico ancora vestito. Si incuneava tra fianchi e spalle, gomiti e schiene, ma Adriano gli restava attaccato. Si accorse che nella tasca della giacca c’era qualcosa di metallico, aguzzo e irregolare. Le chiavi della macchina. Infilò la mano destra e riuscì ad afferrarle.
Quell’altro si era messo a urlare. Non si accorgeva di niente. Litigava con un vecchio dai capelli tinti di biondo che non voleva lasciarlo passare. All’improvviso la folla sussultò. Al primo piano dell’edificio che cercavano di raggiungere, si spalancò una finestra e un uomo grande e barbuto uscì sul balcone. Aveva il tronco nudo. Un ventaglio di aiutanti si dispose dietro di lui. In pochi secondi si diffuse il silenzio. L’uomo levò in alto un braccio e la folla aspettò che parlasse. La sua voce era potente.
– Vedo che ci siamo tutti…
La piazza trattenne il respiro.
– … proprio tutti, i vivi e noi morti.
La gente urlò di gioia, osannò e incominciò a battere i piedi e le mani. Si muovevano insieme, come un unico organismo. Tutti quegli individui erano nati, morti e ritornati nello stesso luogo. Condividevano lo spazio, il tempo, la lingua. L’uomo fece un passo avanti e si appoggiò al parapetto.
– Ma forse, vista la ressa, qualcuno poteva anche evitarsi il disturbo e starsene a casa…
La gente rise di nuovo. Adriano intravide un vuoto alla sua sinistra e si precipitò a occuparlo staccandosi da Interminelli che fissava il balcone a bocca spalancata, il collo tirato. In quel momento, la luna si liberò dall’abbraccio di una nuvola e la sua luce verde inondò la scena. L’individuo che si ergeva al centro del balcone, il capo adorato dalla massa dei morti, l’uomo che annunciava il nuovo inizio, aveva il volto di John Ametrano.

– Amiche e amici! Per chi ancora non lo avesse capito, qui stavano per deliberare il nostro sterminio. Sarebbe stato un peccato sprecare così la nostra nuova vita, non trovate? Ebbene: quella decisione non sarà presa.
La massa esplose in un boato.
– La terza ondata è arrivata! Il nostro numero finalmente sovrasta quello dei vivi. D’ora in poi saremo noi a comandare. Che la festa abbia inizio!
La gente sembrava impazzita.
– E per cominciare vorrei regolare qualche conto in sospeso. Siete d’accordo?
Giù in basso, la folla tuonò. Ametrano gridava.
– Ci vuole un sacrificio, come da tradizione. Ecco, laggiù, in mezzo a voi, riconosco un vecchio amico.
Massimo Interminelli, come un idiota, alzò la mano. Forse si illudeva ancora, forse era ipnotizzato, forse aveva deciso di morire.
– Sì, proprio quel signore che agita la mano. È il dottor Massimo Interminelli, e io credo, in tutta coscienza, che nel mondo, tra sette miliardi di vivi, non esista un figlio di puttana peggiore.
Adriano, intanto, continuava ad arretrare sfruttando ogni interstizio che si apriva alle sue spalle. Interminelli fu circondato e sollevato al di sopra della calca. Decine di mani e di braccia se lo passavano sopra le teste come un fantoccio, sospingendolo in direzione del fuoco. Migliaia di dita. Lo facevano a pezzi. Pesci intorno a una carcassa. Adriano si allontanava. E a ogni metro conquistato, qualcosa a Interminelli veniva strappato. I vestiti. La cintura. L’orologio. La pelle. Gli occhi. La lingua. Era il pupazzo dell’anno vecchio fatto a brandelli per accogliere il nuovo. A ogni passaggio centinaia di unghie lo scarnificavano, gli scavavano dentro senza fretta o accanimento. Accadeva per natura, perché doveva accadere, non ne aveva colpa nessuno. Ognuno dei suoi assassini aveva soltanto graffiato, strizzato, raschiato, scavato, e non ce n’era uno, nemmeno uno, che potesse pensare di aver ucciso da solo.
Quando fu gettato nel grande falò al centro della piazza non aveva più un centimetro di pelle addosso, ma era ancora vivo. Una cosa urlante e grondante sangue, una creatura scorticata da mille mani. Facendosi strada tra i corpi, Adriano ormai era su un ponte. Si voltò per un attimo a guardare la forma di un essere umano che s’intravvedeva nera nel rosso e giallo del fuoco.
Altrove, la densità dei corpi era minore. I morti avevano occupato molti appartamenti disabitati e la devastazione svuotava le strade. Dietro le finestre spalancate danzavano milioni di candele. I lampioni non si erano accesi. Sopra i tetti si affacciava una pallidissima luna piena, sembrava avesse appena vomitato. Facendosi guidare da lei, Adriano attraversò la città fino a un canale dove era già stato. Sull’altra sponda riconobbe la strada che conduceva al parcheggio. Ritornò sui suoi passi alla ricerca di un ponte, ma dopo pochi metri, mentre attraversava un porticato, si trovò di fronte cinque uomini. Ne riconobbe uno. Era un vecchietto malandato che alla conferenza di Wa Zì sedeva qualche fila dietro di lui. Adesso era teso. Aveva gli occhi feroci. Gli venne incontro nel buio, levandosi di bocca la dentiera.
– Questo qui, per esempio, è vivo.
– E tu come fai a dirlo?
– L’ho visto a una conferenza nei primi giorni, quando ero infiltrato.
Adriano si bloccò cercando una fuga.
– Che cosa gli facciamo?
– Giochiamoci un po’.
– Ehi, vivo, rispondi a questa domanda: com’è avere paura di morire?
– Su, dài, rispondi. Che noi ce lo siamo dimenticati. Gli si fecero intorno. In mano stringevano bastoni.
L’unica era saltare il parapetto e buttarsi nel canale.
– Lasciatelo stare. Quello lì è più rinato di voi.
La voce arrivava dall’alto. Da un punto che Adriano non riusciva a vedere, qualche metro prima dell’ingresso del portico.
– E tu come lo sai?
– Lo conosco bene. 1870-1940. Adriano Karaianni, un carpentiere, era in ospedale con me.
Il vecchio senza denti fissò il medico negli occhi e gli girò intorno annusandolo. Un cane cattivo che muoveva le narici. Esitò per un istante. Poi si voltò.
– Andiamocene via, il ragazzo ha ragione. Questo qui è più morto di noi.
– Più morto che vivo!
Li guardò andarsene via, uscì dal sottopassaggio e risalì gli scalini del ponte di pietra, le dita strette intorno alle chiavi. Quello che lo aveva salvato lo aspettava seduto sul parapetto, illuminato dalla luce lunare.
– Dotto’, è stato un piacere.
– Il piacere è stato mio, Michelangelo, grazie.
– È già nata la tua bambina?
– Non ancora. Ma tu come lo sai che è una bambina? – E adesso che cosa farete?
– Cercheremo un posto tranquillo.
– Io lo so, dottore, che per te sarebbe stato più facile uccidermi.
– Anche per te sarebbe stato più facile non immischiarti. Siamo fatti così.
Arrivò alla macchina che erano le sei del mattino. Dalla città giungeva ancora, ininterrotto, il brusio di una festa infinita percorsa da urla e risate, l’eco del carnevale più sfrenato che avesse mai avuto luogo nella storia dell’uomo. I telefoni non funzionavano più. Arrivato al parcheggio, schiacciò il pulsante dell’apertura automatica, e gli sembrò che l’auto lo salutasse accendendo le quattro frecce e la luce interna. Spalancò la portiera e si lasciò cadere. Allaccio la cintura sul petto nudo, sistemò il sedile e aggiustò gli specchietti. Mise in moto. Andava da Maria.

(foto Christopher Furlong/Getty Images)

I primi tornarono a nuoto è il nuovo romanzo di Giacomo Papi, 44 anni, scrittore, giornalista e autore televisivo, pubblicato da Einaudi e uscito in libreria lo scorso martedì. Come dice la quarta di copertina, “reinventa con grande originalità uno dei luoghi più fecondi del nostro immaginario, quello del «ritorno dei morti», in cui ogni epoca ha proiettato paure e desideri inconfessati”. Quelli che pubblichiamo sono tre brani del primo, secondo e ventottesimo capitolo.