Sylvia Plath e lo “spirituale”
«Non voglio una cassa qualunque, voglio un sarcofago
con striature di tigre e una faccia dipinta
tonda come la luna, con gli occhi sgranati in su.
Voglio sembrare che li guardo quando verranno
a scavarmi fra ottusi minerali e radici.
Già li vedo – pallide facce, a una distanza astrale.
Adesso non sono nulla, non sono nemmeno in fasce.
Li penso senza né padri né madri, come gli dei primigeni.
Si domanderanno se io sia stata importante.
Dovrei come frutta candire e conservare i miei giorni!
Il mio specchio si appanna –
ancora qualche fiato e non specchierà più niente del tutto.
I fiori e le facce si sbiancano come un lenzuolo.Dello spirituale non mi fido. Sguscia via come vapore
nei sogni, per le fessure della bocca o degli occhi. Non posso
fermarlo, né mai tornerà. Ma non così le cose.
Loro restano, con quel piccolo brillìo particolare,
da tante mani scaldato, con un brusìo di piacere.
Se avrò freddo alle piante dei piedi,
mi consolerà l’occhio azzurro del mio turchese.
Siano con me le mie casseruole di rame, i miei vasi di coccio
mi fioriscano intorno notturni fiori, dal buon profumo.
Mi avvolgeranno nelle bende, deporranno il mio cuore
sotto i miei piedi in un bel pacchettino.
Non mi riconoscerò quasi. Sarà tutto buio,
ma ci sarà il fulgore di questi piccoli oggetti più dolce che il
viso di Ishtar»
(Sylvia Plath, Ultime parole, 1961, in Lady Lazarus e altre poesie, Oscar Mondadori. Plath morì suicida l’undici febbraio 1963, a trent’anni)