La storia di Mentor Malluta
Chi è il bambino rom fotografato nella contestata copertina di un settimanale svizzero: ha 8 anni, aveva una pistola giocattolo e non ha a che fare con la Svizzera
Il 4 aprile scorso il settimanale svizzero Weltwoche è uscito con in copertina una foto in cui un bambino rom punta una pistola verso la telecamera. La foto era accompagnata dalla scritta “Arrivano i rom” e illustrava l’aumento di rapine che c’è stato in Svizzera negli ultimi mesi, attribuendone evidentemente ai rom la responsabilità.
La copertina è stata fortemente criticata e accusata di razzismo non solo in Svizzera ma anche in Germania, in Austria e altri paesi europei. Il tribunale della città tedesca di Heidelberg ha cercato di bloccare la diffusione del giornale in Germania e ha presentato una denuncia per istigazione al razzismo e diffamazione, mentre la Commissione federale svizzera contro il razzismo sta verificando se le leggi antirazziste del paese sono state violate. Il vice capo redattore di Weltwoche, Philipp Gut, coautore dell’articolo, ha difeso il proprio lavoro in un video messaggio dicendo che l’immagine in copertina rispecchia un problema reale del Paese: «Bande rom abusano dei loro figli per scopi criminali. Il vero scandalo è che nessuno di coloro che si dicono indignati faccia qualcosa contro questo abuso».
La foto pubblicata sulla copertina del Weltwoche non ha inoltre alcuna relazione con la Svizzera: venne scattata nel 2008 nella città di Đakovica (in albanese Gjakovë), in Kosovo, dal fotografo italiano Livio Mancini. È stata venduta a Weltwoche da un’agenzia che ha poi criticato l’uso fatto dal giornale, perché ne avrebbe ribaltato il significato originario. L’intenzione di Livio Mancini infatti era testimoniare le condizioni di povertà delle comunità rom a Đakovica, che sopravvive raccogliendo dalla spazzatura materiale riciclabile e poi rivendendolo.
Chuck Sudetic del sito dell’Open Society Foundations è andato a Đakovica, per raccontare chi è il bambino ritratto nella foto. Si chiama Mentor Malluta, ha otto anni e vive con i genitori e due sorelline. Nella foto scattata da Livio Mancini Mentor stava giocando con una pistola giocattolo. Dice che da grande vuole fare il poliziotto.
A Đakovica solo poche famiglie si considerano rom, ne parlano la lingua e ne seguono le tradizioni. Gran parte di loro appartiene alla minoranza degli ashkali e dei balcano-egiziani che parlano albanese, seguono i costumi albanesi e sono stati riconosciuti nella Costituzione del Kosovo del 1999. Mentor Malluta e la sua famiglia appartengono alla minoranza dei balcano-egiziani. Suo padre Regjep ha 32 anni, è cresciuto a Đakovica in un magazzino abbandonato e occupato da venti famiglie, circa 150 persone. Quando non andava a scuola – ha frequentato fino alle elementari – accompagnava la madre a fare l’elemosina nelle strade della città. Contrariamente a molti altri nomadi non è fuggito durante la guerra con la Serbia e i bombardamenti NATO.
Negli anni successivi al conflitto Regjep ha mantenuto la sua famiglia – composta dalla moglie Teuta, da Mentor e da altre due figlie, Shkurta, che ora ha dieci anni, e Senita, che ne ha sei – raccogliendo plastica, carta e metallo nelle discariche e vendendoli a società che le riciclano. Quando le cose andavano bene guadagnava anche dieci euro al giorno, ma quei giorni erano rari: molti nomadi sopravvivono raccogliendo le stesse cose nelle discariche. Inoltre il governo locale ha affidato la gestione delle discariche della città a compagnie che assumono uomini a 200 euro al mese per raccogliere il materiale riciclabile. Regjep ha messo da parte un po’ di soldi e poi ha chiesto un prestito per comprare una sega portatile: ora si guadagna da vivere tagliando legna da ardere a due euro al metro cubo, anche se d’estate c’è poco lavoro. Ha comprato una casa per la sua famiglia, piccola ma curata: ha due stanze, ha tappeti sul pavimento e una stufa a legna. È fornita di elettricità e acqua corrente, in un angolo c’è una vecchia tv, un pc e un impianto musicale, tutto funzionante. C’è anche internet.
Regjep racconta in questo modo la scoperta della foto di Mentor sul Welltwoche:
«Sono impazzito quando ho visto mio figlio sul giornale. Non ho dormito per tre giorni, mi sento ancora giù. Sono molto spaventato. Ho paura di domande politiche. Ho paura che tutti là fuori vogliano vedere la foto. È come se fossimo dei criminali, come se un bambino piccolo avesse preso in mano un’arma mortale».
Ha anche detto di aver paura di mandare i suoi figli a scuola. Ha spiegato che non è mai stato un criminale e ha lavorato tutta la sua vita guadagnando pochissimo.
«Questo giornale ha danneggiato il mio onore e gettato nel fango la nostra intera comunità. Tra noi l’onore è molto molto importante. Non siamo criminali, non siamo assassini. Se fossimo assassini non avremmo alcun posto in cui andare. Voglio fare causa al giornale. Se fosse in Kosovo saprei esattamente cosa fare. Ma essendo un caso internazionale non so come muovermi. Nessuno mi ha ancora offerto aiuto, ma non mollerò.»
Negli ultimi tempi gli attacchi contro i rom in Europa non sono retorica: in Repubblica Ceca gli estremisti hanno incendiato le case dei rom mentre campi rom sono stati sgomberati in Francia, Italia, Regno Unito e altri paesi dell’Unione europea.