La caduta di Gerald Ford
1975, Salisburgo, scaletta bagnata: lo racconta Michele Dalai nel suo nuovo romanzo
di Michele Dalai
Austria, giugno 1975
Quando manca poco più di un’ora all’atterraggio, lo Spirit of ’76 entra in un’area di violente turbolenze e le stoviglie apparecchiate con cura sul piccolo tavolo da pranzo cominciano a spostarsi e avvicinarsi al bordo. I bicchieri cozzano di continuo e la zuppiera con lo stemma presidenziale prima si inclina su un lato e poi precipita per terra, allontanandosi a grande velocità lungo lo stretto corridoio in moquette chiara. Le dimensioni dei piatti, la tappezzeria delle comode poltrone da prima classe, ogni singolo dettaglio è stato scelto da Nixon, e non da lui. Lo stesso Boeing 707 che ora si arrampica sulle creste d’aria e poi precipita per decine di metri nel vuoto è stato scelto, o almeno richiesto, da Nixon, che l’ha voluto chiamare così a quattro anni dal Bicentenario, per evocare lo spirito patriottico e indipendente di una Nazione libera da qualsiasi giogo, tranne che dal suo. A dire la verità gli aerei battezzati Spirit of ’76 sono due, il SAM 26000 e il SAM 27000 su cui viaggia ora il Presidente; sono quasi identici ed entrambi sono stati da poco dotati di un moderno sistema di difesa antimissilistica come risposta alla continua minaccia di attentati terroristici, altra grande novità toccata in sorte a Gerald Rudolph Ford Jr, l’uomo seduto dietro al tavolo. Anche se entrambi sono a disposizione del Presidente, solo quello che lo trasporta prende il nome di Air Force One, il più importante velivolo della Nazione, l’aereo senza obblighi né rotte prestabilite.
Gerald osserva concentrato la traiettoria della zuppiera, irregolare e imprevedibile per via delle deviazioni imposte dai due piccoli manici di ceramica. Quando sta per uscire dalla sua visuale, per non perdere le ultime evoluzioni prima del probabile schianto Gerald Ford, detto Jerry anche dagli amici meno intimi, si sporge sulla sua sinistra, inclinandosi un po’ troppo oltre il baricentro e sfiorando il disastro. Per restare in piedi, o meglio per non cadere dalla sedia, afferra la tovaglia candida ricamata con l’effigie dell’aquila nel mezzo e, strattonandola, rovescia tutto ciò che fino a pochi secondi prima traballava e tintinnava senza troppi rischi. “Clumsy”, goffo, per questo lo chiamano così. Ignoranti, ingrati, avessero fatto un centesimo della fatica che ha fatto lui sul campo, un millesimo delle flessioni e delle sospensioni alla sbarra che hanno reso le sue mani salde come tenaglie e il suo petto duro come la roccia su cui si infrangevano squadre intere di adolescenti. Jerry non è goffo, è solo che da quando ha dovuto immolarsi per il bene del Paese c’è qualcosa che non va con l’equilibrio. Un vero pasticcio, perché Jerry è grande e grosso, un uomo robusto che ha coltivato la sua muscolatura per anni e che ora paga proprio quella mole ipertrofica. All’ultimo istante utile prima della caduta, mentre la povera Betty già grida con gli occhi coperti dalle mani guantate, uno degli uomini della scorta si getta in avanti e riesce a sostenere tutto il peso del Presidente, lo ricaccia con delicatezza ma non senza decisione sulla poltrona. Segue un attimo di silenzio imbarazzato, ma poco dopo è lo stesso Jerry a esplodere in una risata stentorea, potente e aperta. I pochi giornalisti al seguito stanno nella sala attrezzata e non hanno visto nulla, Betty scuote la testa ma sorride, e così tutti tornano alle loro occupazioni mentre il cameriere personale ne ha una nuova e nemmeno troppo gradevole, ripulire il tavolo e il corridoio dai cocci seminati un po’ ovunque.
Le turbolenze sono terminate, l’aereo galleggia placido in quota e tra poco comincerà a scendere verso la destinazione. Il Presidente si alza con uno scatto che vorrebbe dissimulare la goffaggine causa di tanti problemi, ma nessuno gli fa caso. Il sole sopra le nuvole lo ha sempre messo di splendido umore, è una di quelle meraviglie semplici a cui non vuole abituarsi, che non darà mai per scontata.
Prende dalle mani del segretario una quantità di cartellette, tutte portano stampata sulla copertina la dicitura “top secret”; sono di colori diversi, e chissà se Nixon ha scelto anche quelli. Gerald Rudolph Ford Jr si risiede sulla larga poltrona accanto al finestrino, apre la prima cartelletta e scorre velocemente i fogli all’interno. Nei giorni precedenti ha mandato a memoria tutto il discorso da fare agli austriaci durante il brindisi, non è stato difficile. Ogni volta che si allontana da casa prova la gradevole sensazione di non doversi scusare, giustificare cose che non ha fatto, errori che non ha commesso, bugie che non ha raccontato.
Chissà se un presidente involontario può commettere reato di alto tradimento? In quel caso si parlerebbe di alto tradimento involontario? Sono questi i pensieri che gli impediscono di concentrarsi a fondo, e non c’è modo di spegnerli. Questi pensieri e il ricordo di quando e quanto era bello servire a qualcosa, servire a servire il Paese senza l’attenzione e la responsabilità di ogni proprio gesto pubblico.
La diplomazia è l’esatto opposto del football americano. L’unico punto di contatto è la disciplina, ma nel football americano qualsiasi tatticismo non può durare all’infinito, la strategia non può coprire e soffocare l’audacia. Gerald lo sa.
Per esempio quella volta che con la squadra dell’università del Michigan incontrarono la University of Chicago, quella volta che riuscì a mettere in terra Jay Berwanger… lo sanno quei cialtroni in malafede al di là della porta, quei crumiri di ogni sua disattenzione, chi era Jay Berwanger? Nemmeno per sogno. A quei tempi uno dei suoi allenatori gli aveva fatto il più bel complimento della sua vita, una di quelle frasi che si portano nel cuore e nella memoria per sempre, e spesso si sale lassù a spolverarla e ripeterla. Aveva detto che Jerry era uno capace di non scappare e di combattere per una causa persa. Ecco, Berwanger era una causa persa, il più forte running back di tutto il football universitario, uno che avrebbe lasciato il segno e di lì a poco avrebbe vinto l’Heisman Trophy, il premio per il miglior giocatore della stagione.
Era il 1934, e Jerry riuscì ad abbatterlo e fermare la sua corsa, un gesto perfetto, le braccia strette intorno al bacino dell’avversario e tutto il peso del futuro presidente in maglia numero 48 a tirare verso terra, a impedire che le gambe veloci di Berwanger scalciassero e riprendessero la corsa. La faccia di quel ragazzo quando si rialzarono in piedi, la sua espressione scossa e la mano tesa in direzione di Jerry, a complimentarsi. Può accadere qualcosa del genere a chi fa questo faticoso e noiosissimo lavoro necessario all’umanità, e in particolare all’umanità occidentale del primo mondo? Nemmeno per sogno, la diplomazia non osa, la diplomazia calcola.
Un profondo sospiro, e il Presidente sposta la sua attenzione su Betty, seduta dall’altra parte del tavolo e intenta a chiacchierare a bassa voce con uno degli assistenti di cabina. Quando finalmente incrocia il suo sguardo deciso ma privo di ombre, Gerald – Jerry – sa di essere al sicuro e si concentra su altre due cartelline, quelle con i profili di Sadat e di Kreisky. Anche se sa bene che sull’esile dossier Kreisky dovrebbe perdere al massimo cinque minuti, c’è qualcosa che lo affascina nella storia dell’uomo apparentemente mite e ragionevole che gli austriaci hanno eletto cancelliere quasi contro la sua stessa volontà. Un socialdemocratico ebreo messo nella posizione del bimbo olandese davanti alla diga, con un dito a tappare la falla enorme da cui è sgorgato tutto il male del mondo. C’è una parte della biografia di Kreisky che Jerry il Goffo legge e rilegge più volte fino a farla sua: è il passaggio in cui quell’uomo di soli due anni più vecchio di lui, cui è toccato scampare all’Olocausto abbandonando casa, famiglia e patria, si dice molto perplesso della scelta dei suoi connazionali, come se non fosse convinto di essere la persona adatta. Quanto lo capisce!
Nessuno può capirlo meglio di Gerald Rudolph Ford Jr, nato Leslie Lynch King Jr e costretto da subito a cambiare nome a causa di un padre troppo violento e di una madre molto moderna. Nemmeno il nome si è potuto scegliere Jerry, per questo capisce Kreisky e i suoi dubbi.
Jerry è diventato presidente per mancanza di alternative, come uno di quei nuotatori che corrono le batterie da soli perché gli altri si sono tutti fatti squalificare per false partenze o non si sono proprio presentati. Spiro Agnew ha lasciato la carica di vicepresidente ed è toccata a lui, che era ben felice di fare quello che faceva, il leader della minoranza alla Camera dei rappresentanti. Poi è stato Nixon a mollare e allora tutti si sono girati, e increduli quanto lui gli hanno annunciato che era giunto il momento, il suo turno.
Lui, non proprio uno che passava di lì per caso ma quasi, con l’eredità di una Nazione umiliata dalla sua guida e di una crisi economica spaventosa. La stagflazione. Una cosa che Jerry non riesce a mandare a mente, una parola che starebbe bene nel manuale di istruzioni di uno di questi giganteschi e inutili aerei di rappresentanza, e che invece tocca addirittura risolvere.
E poi i terroristi, le guerre in Medioriente e tutto quello che sapeva ma non avrebbe voluto conoscere meglio.
Jerry incontrerà Sadat e cercherà di capire cosa succede laggiù, cosa si può fare per evitare che Israele venga rasa al suolo o rada al suolo, più o meno è questo il senso. Ma il resto della questione ora non riesce proprio a ricordarlo e non se ne fa un problema, rassicurato dal lavoro degli sherpa, dei ministri e delle unità di crisi che, lungi dall’essere coordinate, lo coordinano.
Betty, l’unica ragione di vita.
Ora lucida, poco prima di salire in aereo ancora intontita da tutto quello che la sta lentamente spegnendo, da bottiglie e pillole e ancora bottiglie che Gerald non sa più come affrontare, nascondere, buttare. Betty che pensa anche per lui, che lo sostiene in questa impresa assurda e che pazientemente ascolta, registra ed elabora. Finché c’è Betty è al sicuro, il Presidente lo sa e si strugge quando cerca un modo buono e ultimo per salvarla da quella Disneyland dopo il tramonto che è la sua testa stanca.
Le nuvole si avvicinano, il comandante chiede di accomodarsi e allacciare le cinture proprio come su un qualsiasi aereo di linea, ma nel farlo non dimentica di salutare il Presidente e la First Lady e augurarsi che il volo sia stato di loro gradimento.
Jerry e Betty abbandonano il tavolo e tornano ai loro posti, le mani strette sul largo bracciolo.
Il sole sparisce, o forse è l’aereo che sparisce dentro alle nuvole e perde sensibilmente quota mentre si avvicina alla pista di atterraggio. Kreisky è un uomo giusto, un uomo buono, Jerry ha deciso che si avvicinerà a lui con il migliore dei suoi sorrisi, e non appena i fotografi avranno finito di fare il loro dovere lo prenderà sotto braccio come si fa con i vecchi amici e gli dimostrerà quanto lo stima, quanto lo sente vicino.
La solitudine dell’uomo di Stato è una cosa bruttissima: le battute scontate, la mancanza di calore, serpenti che si avviluppano a serpenti. Jerry è diverso e pensa che lo sia anche quell’uomo dalla faccia larga nascosta in parte dagli enormi occhiali da vista.
L’aereo tocca terra e frena, la mano di Betty ha un sussulto, significa che la sua pauraperfettamente dissimulata ora può tornare nell’angolo buio dei pensieri, che il volo è finito.
Piove, le gocce pesanti colpiscono l’oblò che solo fino a pochi minuti prima portava Jerry sopra tutti gli incontri diplomatici del mondo, lassù dove nemmeno il migliore dei calci avrebbe potuto spedire il pallone.
Uno degli addetti alla sicurezza si occupa delle operazioni di aggancio della scaletta, la discesa del Presidente e della sua signora viene preparata in ogni dettaglio. L’assistente di cabina che parlava con Betty le porge un ombrello di plastica trasparente, forse una trovata per permettere ai fotografi di non perdere nemmeno un secondo dello storico evento – un presidente americano non atterra tutti i giorni in Austria, e ogni cosa deve funzionare alla perfezione.
Eccoli.
Da sotto la scala parte un diluvio di flash, Jerry e Betty si affacciano e salutano. Jerry guarda subito in basso per cogliere lo sguardo del suo nuovo amico e non può fare a meno di notare che non porta gli occhiali. Un uomo distinto e sorridente con un elegante loden verde e una sospetta tinta castano-rossa ai capelli, un tocco di eccentricità che Gerald non si concederebbe mai. Stringe la mano di Betty, che a sua volta regge l’ombrello. La First Lady è impeccabile nel suo completo spezzato, coordinato con il cappottino chiaro, il cappello e i guanti; Jerry invece non ha né giacca né cappotto, veste un completo scuro che sembra tagliato per evidenziare ancora di più la mole imponente ma ancora atletica nonostante i sessantun anni. Scendono, e Betty sussurra al Presidente di fare attenzione ai gradini, che sono piccoli (troppo piccoli per i suoi enormi piedi) e scivolosi. Passo dopo passo i Ford si avvicinano al tappeto rosso e Jerry ripete le prime tre parole che dirà subito dopo il benvenuto di rito del collega. L’unico dettaglio che non riesce proprio a ricordare è se sono atterrati a Salisburgo o a Vienna, ma basterà non fare menzione del luogo e tutto andrà per il meglio.
All’ottavo scalino, finalmente, il Presidente e Kreisky stabiliscono un contatto visivo e Jerry fa un cenno con il capo, annuisce giusto per mettere in chiaro che è felice di essere lì. Poi arriva il tredicesimo scalino. Jerry porta troppo avanti il tacco e perde il controllo del piede, scivola, e mentre lo fa ha l’accortezza di mollare immediatamente la mano di Betty per non trascinarla giù con lui. Tutto, ma Betty non deve cadere. Il volo di Jerry è strano, rovinoso ma composto come solo quello di un atleta. Prima scivola in avanti e poi si accascia sbattendo le ginocchia a terra e finisce genuflesso sul tappeto rosso, quasi in posizione di preghiera, come uno che bacia il suolo dopo una traversata pericolosissima. È questione di un attimo, nessuno degli addetti alla sicurezza, nessuno dei diplomatici austriaci riesce ad afferrarlo. Tantomeno Betty, che mostra tutta la lentezza dei suoi riflessi provati, se possibile più lenti di appena un’ora prima, quando tra le turbolenze volavano stoviglie. Jerry è a terra e mentre si rialza, quasi come fosse un gesto automatico, porge la mano a Kreisky, che è così bravo da non ridere e da trovare subito il colpevole in quel maledetto scalino bagnato, che indica ripetutamente mentre non stringe la mano di Jerry.
Ed è allora che Gerald Rudolph Ford Jr si accorge della sua mano protesa verso uno spazio vuoto, dove solo in apparenza non c’è nessuno che possa stringerla, e per qualche momento dentro di lui si scatena la più bella e sana risata della sua vita, perché è allora che il Presidente capisce che, anche se non l’ha visto arrivare, anche se dev’essere stato velocissimo a eludere i controlli di sicurezza e a non dare nell’occhio pur se conciato in quel modo e ricoperto di fango, chi l’ha fatto cadere in realtà è quel vecchio figlio di puttana di Jay Berwanger, da quarant’anni in attesa di una vendetta, la vendetta più bella. Placcaggio per placcaggio, umiliazione per umiliazione, nessuna diplomazia. Così, mentre tutti sono ancora imbarazzati e agitati per il terribile volo di Gerald rudolph Ford Jr e sperano che il cancelliere austriaco si accorga al più presto di quella mano tesa già da troppo, Jerry è l’unico a sapere che il destinatario di quel gesto non è Kreisky, perché non è a lui che la sta offrendo. Di fronte a lui, invisibile agli altri e ragazzo proprio come allora, c’è Jay Berwanger. I due si guardano e dopo pochi istanti l’espressione tesa e concentrata di Jay si rilassa e il ragazzo allunga la mano e stringe quella di Jerry, finalmente pronto a raccogliere i suoi complimenti. Per Kreisky e i nuovi amici c’è tempo, il tempo di una risata soffocata e lunghissima.
Le più strepitose cadute della mia vita è il nuovo romanzo di Michele Dalai, pubblicato da Mondadori. Il protagonista cerca di dare un senso a una vita disordinata e incerta convertendo i suoi talenti musicali al progetto di costruzione di una boy band e ha tra le sue goffaggini una drammatica inclinazione a cadere, cadere davvero, per terra, travolto da crisi di riso. La sua storia, nel romanzo, è raccontata insieme a quelle di alcune storiche cadute davvero accadute, come quella di Gerald Ford in Austria (ma ci sono anche Margaret Thatcher, papa Wojtyla e il pugile Michael Spinks). Michele Dalai ha 39 anni, fa il giornalista, lo scrittore, l’autore televisivo e l’editore con la casa editrice ADD.