I “mi sono perso” dei soldati statunitensi
Che cosa sono i "blood chit" e perché hanno salvato la vita di tanti soldati da metà Ottocento a oggi
“At War” è uno dei blog tematici del New York Times e, come suggerisce il nome, si occupa della raccolta di notizie, dati e informazioni sulle guerre condotte dagli Stati Uniti in tutto il mondo. In un post pubblicato lo scorso 29 marzo, C.J. Chivers si è occupato dei “blood chit” utilizzati al fronte dai soldati statunitensi. Le due parole, che letteralmente significano “sangue” e “buono”, indicano un particolare sistema utilizzato dai soldati per ottenere aiuto da parte dei civili quando si trovano in condizioni di pericolo in cambio di una ricompensa.
In sostanza, si tratta di brevi messaggi prestampati e scritti nella lingua locale dell’area di guerra in cui operano i militari, che un soldato può mostrare a chiunque potrebbe dargli una mano. I messaggi seguono di solito uno schema predefinito: sono tizio, non sono di qui, mi sono perso e vorrei tornare indietro. I blood chit contengono anche richieste più specifiche di aiuto e la promessa di una qualche forma di ricompensa, spesso in denaro. Questi documenti sono utilizzati principalmente da quei soldati che sono a maggior rischio di ritrovarsi isolati in un territorio ostile, come per esempio i piloti e i paracadutisti.
“At War” mostra una delle varianti dei blood chit utilizzata dai soldati durante una missione aerea quest’anno sul Pakistan e la parte meridionale dell’Afghanistan. Il messaggio principale dice:
Sono un soldato americano e non parlo la tua lingua. Non ti farò del male! Non ho nulla contro la tua gente. Amico, dammi per favore cibo, un riparo, acqua e opportune cure mediche. Inoltre, offri un passaggio sicuro a tutte le forze amiche più vicine di qualsiasi paese che sostengono gli americani e i loro alleati. Sarai ricompensato per avermi assistito quando presenterai questo numero alle autorità statunitensi.
Ogni soldato riceve il blood chit prima di partire per la propria missione e a ogni buono viene associato un numero di serie. In questo modo, se il soldato viene dato per disperso e un civile segnala di essere entrato in contatto con quella persona, attraverso il buono è possibile verificare l’effettiva identità del militare. Come spiega Chivers, i blood chit non sono in effetti piccoli e delle dimensioni di un buono. Di solito si tratta di un foglio di grandi dimensioni ripiegato su sé stesso, con il medesimo messaggio scritto in diverse lingue e dialetti. La presenza di diverse lingue è giustificata dal fatto che le missioni aeree passano sopra numerosi paesi e territori durante un singolo volo.
Ovviamente fare un blood chit standard scritto in tutte le lingue sarebbe poco pratico, se non impossibile. L’esercito degli Stati Uniti ha quindi diversi buoni a seconda delle aree del mondo in cui operano i suoi soldati. Nell’esempio proposto da Chivers, il blood chit è stato espressamente stampato per l’area del Corno d’Africa e per parte dell’Asia. Lo stesso messaggio è proposto in aramaico, arabo, armeno, azero, tre dialetti legati al dari e tre al farsi, francese, tedesco, georgiano, gikuyu, hausa, ebraico, italiano, curdo centrale, curdo settentrionale, lori, pashtu, portoghese, russo, sindhi, somalo, tagico, tigrino, turco, urdu e uzbeko.
Secondo la Joint Personnel Recovery Agency (JPRA), l’agenzia statunitense che si occupa del recupero e del soccorso del personale degli Stati Uniti nelle aree di crisi, i blood chit furono utilizzati in maniera sistematica a partire dal 1842 dall’esercito britannico nelle montagne dell’Afghanistan. Si rivelarono un sistema molto efficace e negli anni seguenti furono utilizzati in altre aree di guerra, fino a diventare una sorta di standard durante la Prima guerra mondiale. Gli Stati Uniti iniziarono a utilizzarli nei primi anni Quaranta in Cina e successivamente estesero il sistema alle altre zone di guerra statunitensi.
Durante la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti utilizzarono decine di migliaia di blood chit per i loro soldati, ma solo per quelli che partecipavano a missioni aeree. Le ricompense all’epoca oscillavano tra i 50 e i 250 dollari. Furono adottati anche nelle guerre in Corea e in Vietnam. Finita la guerra del Vietnam, il sistema fu abbandonato e ripreso a partire da Desert Storm, la Prima guerra del Golfo. E da allora il programma è stato esteso per comprendere tutti quei soldati che potenzialmente potrebbero trovarsi isolati in ambiente ostile.
Sfortunatamente non è possibile sapere quanto si sia rivelato efficace il sistema dei blood chit negli ultimi decenni, perché l’esercito ha deciso di secretare tutto ciò che riguarda l’utilizzo dei buoni. La scelta si è resa necessaria per tutelare le persone che aiutano i soldati americani a salvarsi, spiegano quelli del JPRA. In alcuni casi, la diffusione di notizie su particolari persone che avevano aiutato i militari statunitensi indussero i regimi e le forze ostili a torturarle o ucciderle. L’identità di chi collabora non viene più diffusa e così nemmeno il denaro dato per ricompensare l’aiuto fornito.