Gli arbitri favoriscono la squadra di casa?
La BBC ha provato a verificare con i numeri una vecchia questione del calcio, che ha prodotto grandi dibattiti e persino dei libri
La BBC ha pubblicato ieri un articolo sui presunti favori che le squadre di calcio del campionato inglese, in particolare le più forti, riceverebbero inconsciamente dagli arbitri quando giocano in casa. Il problema è tornato di attualità dopo la partita di campionato tra Manchester United e Fulham, che si è giocata lunedì scorso allo stadio Old Trafford di Manchester. Il Manchester United ha vinto la partita per 1-0, ma al Fulham è stato negato un rigore piuttosto evidente nel corso della partita, e il suo allenatore Martin Jol ha detto che gli arbitri devono essere più “coraggiosi” in certe circostanze.
Il caso dunque ha riproposto il problema della presunta “sudditanza psicologica” degli arbitri, sia nei confronti della grandi squadre, sia nei confronti del pubblico di casa. La BBC, con la collaborazione del centro statistico OPTA, ha pubblicato alcuni dati sulla frequenza della concessione dei calci di rigore nella massima serie inglese alla squadra ospite, dal 2006 a oggi. Dalla classifica che ne è venuta fuori, è confermato che pochi rigori vengono fischiati contro le squadre più forti quando giocano in casa: per esempio, il Chelsea, in testa alla classifica, si vede dare un rigore contro solo una volta ogni 18 partite, mentre il Liverpool una ogni 15 circa. Ma è anche vero che vengono fischiati pochi rigori contro anche quando giocano in casa le squadre meno forti: nelle prime posizioni di questa seconda classifica ci sono infatti squadre come l’Aston Villa, il Bolton, il Fulham, l’Everton e lo Stoke City.
La situazione cambia quando si parla di rigori a favore concessi in casa. In questa classifica è in testa il Manchester City, con un rigore ogni 3,93 partite giocate in casa. Al secondo posto il Manchester United con un rigore ogni 4,4 partite, mentre qui le squadre più deboli scalano mediamente verso le posizioni più basse (al Wolverhampton, per esempio, viene assegnato un rigore ogni 13 partite). Da questi dati sembrerebbe che arbitrare in casa una squadra ai primi posti in classifica abbia un effetto sugli arbitri. Tuttavia, una squadra più forte occupa generalmente per più tempo l’area avversaria e dunque è piuttosto naturale che abbia più rigori. Questa idea è stata espressa recentemente anche dall’allenatore della Juventus, Antonio Conte, che si è lamentato del fatto che una squadra forte come la Juventus abbia avuto sino a questo momento un solo rigore a favore nel campionato in corso.
L’anno scorso il problema della sudditanza psicologica degli arbitri nei confronti delle squadre che giocano in casa era stato analizzato anche da un libro diventato piuttosto celebre, ossia Scorecasting, scritto dal giornalista sportivo L. Jon Wertheim e dall’economista Tobias Moskowitz e pubblicato a gennaio del 2011. Il libro era stato oggetto di un lungo articolo (che conteneva anche alcune critiche) di David Runciman per la London Review of Books, tradotto in italiano da Internazionale. Runciman riporta il pensiero di Wertheim e Moskowitz, secondo i quali
il fattore campo dipende quasi completamente dai direttori di gara. I giocatori non si fanno condizionare dai fischi dei tifosi, ma gli arbitri sì. A pensarci è logico: se il nostro comportamento fosse sotto l’occhio vigile di decine di migliaia di persone isteriche, cercheremmo di compiacerle, almeno inconsciamente.
Ma secondo Wertheim e Moskowitz il problema è più ampio.
I giocatori ospiti non hanno nulla da guadagnare dai tifosi di casa: se giocano bene vengono insultati, se giocano male vengono presi in giro. Gli arbitri, invece, possono assecondare il pubblico e sfruttare la situazione a loro vantaggio. Le squadre in trasferta non hanno modo di alleviare la tensione che deriva dal giocare in un ambiente ostile. Gli arbitri invece sì. Nel calcio…
…gli arbitri concedono quasi sempre più minuti di recupero quando la squadra di casa sta perdendo e meno quando sta vincendo (in media, quattro minuti nel primo caso e due minuti nel secondo, quanto basta per fare la differenza in molte partite).
Le squadre di casa hanno molti meno espulsi e molti più calci di punizione a favore. Questo, magari, dipende semplicemente dal fatto che la squadra di casa gioca meglio e che gli avversari devono ricorrere alle maniere forti. Ma secondo gli autori è il pubblico che fa la differenza.
Wertheim e Moskowitz, dunque, analizzano le differenze dei comportamenti degli arbitri nei vari paesi europei e quanto questi vengono influenzati dalla vicinanza del pubblico e delle tribune:
Nella Bundesliga tedesca, per esempio, dove molte squadre giocano in stadi con la pista di atletica, che allontana molto la folla dall’azione, gli interventi arbitrali a favore della squadra di casa si riducono della metà. In Inghilterra, in Spagna e in Italia, il numero degli spettatori ha un effetto evidente sul numero dei cartellini rossi mostrati agli ospiti. Maggiore è l’affluenza, più è probabile che la squadra in trasferta finisca la partita con qualche giocatore espulso.
Attraverso questo ragionamento, Wertheim e Moskowitz arrivano a due conclusioni:
Ma la prova più evidente del condizionamento arbitrale viene dagli sport che hanno introdotto la tecnologia per verificare le decisioni dei direttori di gara. Nel baseball c’è un sistema chiamato QuesTec che permette di stabilire se un lancio è stato effettuato o meno all’interno della zona di strike. Gli autori hanno analizzato una serie di dati e hanno scoperto che quando un lancio è chiaro, l’arbitro non favorisce la squadra di casa. Quando invece il lancio è dubbio, la decisione è quasi sempre a vantaggio della squadra di casa. Questo dimostra due cose.
La prima è che, se ne hanno la possibilità, gli arbitri preferiscono assecondare il pubblico che gli soffia sul collo (in molti stadi, quasi letteralmente). La seconda è che ne sono consapevoli, e limitano le decisioni a favore di chi gioca in casa alle situazioni non completamente ovvie (negli stadi in cui c’è il QuesTec, infatti, gli arbitri cominciano ad adeguarsi perché si rendono conto che un eventuale sbilanciamento a favore della squadra di casa sarebbe sotto gli occhi di tutti). Le partite equilibrate sono per definizione quelle il cui risultato può essere determinato da un paio di decisioni chiave. E a quanto pare, sono proprio quelle in cui gli arbitri fanno di tutto per aiutare la squadra di casa. Tanto basta a Wertheim e Moskowitz per indicarli come i responsabili quasi esclusivi del fattore campo.
Tutto questo, secondo Moskowitz e Wertheim, si ripercuote sugli arbitri anche sulle decisioni da prendere all’ultimo minuto o secondo, come racconta Runciman:
Oltre a evidenziare i vantaggi concessi alla squadra di casa, infatti, gli autori spiegano che gli arbitri preferiscono evitare decisioni plateali, soprattutto alla fine delle partite. Si tratta di un fenomeno diffuso, che vale per il calcio e per tutti gli altri sport. Come spiegano Moskowitz e Wertheim dopo aver analizzato quindici anni di dati della Premier League, della Liga e della serie A, “falli, fuorigioco e calci di punizione diminuiscono in maniera significativa man mano che una partita incerta si avvicina alla fine”. È il cosiddetto condizionamento da omissione, e ne soffriamo un po’ tutti: preferiamo lasciar correre invece di provare a fare il nostro dovere rischiando di prenderci la colpa. Se un arbitro interviene alla fine di una partita, sembra che voglia deciderne il risultato. E la gente si arrabbia.
nella foto: la concessione di un calcio di rigore durante Roma-Juventus di questo campionato
(AP/Andrew Medichini)