Giordana sulle critiche al suo film
Il regista di "Romanzo di una strage" risponde sul Corriere della Sera, ma Corrado Stajano rimane severo
Marco Tullio Giordana, regista del film “Romanzo di una strage” – dedicato all’attentato del 1969 in Piazza Fontana a Milano – che è stato già molto criticato sui giornali prima ancora della sua uscita nelle sale il prossimo weekend, ha scritto oggi al Corriere della Sera. Giordana spiega l’uso del contestatissimo libro di Paolo Cucchiarelli nella scrittura della sceneggiatura, ma Corrado Stajano, che era intervenuto ieri sempre sul Corriere, non sembra convinto.
Caro Direttore, sapevo che Romanzo di una strage avrebbe scatenato polemiche, non sono un ingenuo. Anche se il vero senso del film è il suo tentativo di spiegare ai ragazzi d’oggi cos’è stato quel tempo e quell’età, non mi sorprendo che chi l’abbia vissuta possa criticarlo. Me l’aspetto, l’ho messo in conto.
Ieri Corrado Stajano, prima di lui Mario Calabresi, poi Adriano Sofri, poi Gerardo D’Ambrosio (qualcuno anche senza aver visto il film) mi accusano d’aver messo troppo o troppo poco, d’aver eluso informazioni o averne azzardate di troppo fantasiose, quasi tutti rimproverandomi di avere eletto un libro di Paolo Cucchiarelli a mia unica fonte e guida.
Le cose che a Stajano paiono mancare, nel film ci sono invece tutte, a partire dal clima nero di violenza. Vorrei però precisare una scelta che gli spettatori dell’anteprima milanese di lunedì scorso mi sembrano aver colto in pieno. La violenza, parte integrante di quegli anni ma non unica chiave di lettura, io ho voluto intenzionalmente «raffreddarla». La si conosce bene, inutile indulgervi. Romanzo di una strage non è un film di denuncia fatto a caldo, non è mosso dall’indignazione e non la cerca. È piuttosto il tentativo di spiegare la nascita di un fenomeno costitutivo della nostra Seconda Repubblica, promulgata non ufficialmente proprio quel 12 dicembre 1969 e fondata su un doppio Stato. Uno legale nel quale vigono le garanzie della Costituzione e un altro parallelo e sotterraneo fatto di scambio, patto, contrattazione e trattativa segreta col crimine. Fango anziché terra, cenere anziché concime. È soprattutto un film che – come si conviene a un’opera di finzione – racconta di «personaggi», uomini e donne, ragazzi e adulti travolti da un evento che modificherà la loro vita trasformandola in perdenti sotto ogni cielo. Non parlo solo delle 17 vittime della banca, né di Pinelli e Calabresi, e nemmeno del mio compagno di scuola Saverio Saltarelli, ucciso da un candelotto sparato ad alzo zero l’anno dopo, durante una manifestazione che commemorava la strage e chiedeva giustizia, credendola ancora possibile. Parlo di noi, della società che ha predisposto, del Dna inoculato alle generazioni «dopo», sfiduciate e immalinconite.
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