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  • Sabato 24 marzo 2012

Quando Marciano sfidò Joe Louis

Il match del 1951 raccontato nel nuovo romanzo di Antonio Monda

di Antonio Monda

Joe Louis falls to the canvas in first knockdown of 8th and final round of his scheduled 10-rounder with Rocky Marciano, left, in Madison Square Garden in New York City, Oct. 26, 1951. Louis went down for count of eight only to get up again to a flurry of blows from Marciano, sending him down again. The referee signaled the end of the fight in 2:36 of the round. (AP Photo)
Joe Louis falls to the canvas in first knockdown of 8th and final round of his scheduled 10-rounder with Rocky Marciano, left, in Madison Square Garden in New York City, Oct. 26, 1951. Louis went down for count of eight only to get up again to a flurry of blows from Marciano, sending him down again. The referee signaled the end of the fight in 2:36 of the round. (AP Photo)

Antonio Monda, giornalista, scrittore, grande esperto di cinema e letteratura americana che vive a New York, ha pubblicato per Mondadori un nuovo romanzo, che si chiama “L’America non esiste“. È la storia di due fratelli, Nicola e Maria, che arrivano a New York ragazzi all’inizio degli anni Cinquanta, e scoprono l’America. E nel racconto di quella America lì, c’è molta storia dell’epoca e una parte rilevante per la vera carriera del pugile italiano Rocky Marciano.

Nicola apprese l’espressione Indian Summer la mattina dell’incontro Marciano-Louis. Era la fine di ottobre, e gli alberi a Central Park erano gialli e rossi come non li aveva mai visti prima. Ma la temperatura era alta, e c’era molta umidità. Almeno ottanta gradi, secondo la strana misurazione che aveva dovuto imparare in America, ed era quella l’estate indiana: un ritorno improvviso e illusorio della felicità ormai passata. Pensava a questo Nicola, mentre si preparava all’incontro che avrebbe consacrato il mito del pugile della sua terra. Al fatto che la vita ha i suoi cicli inesorabili, ma poi si diverte a illuderti prima di farti capire che il tempo è arrivato, e se non hai sfruttato la tua occasione hai perso per sempre. E non è neanche crudeltà, è indifferenza.
Quella mattina i giornali avevano raccontato che Rocky Marciano era un eroe di guerra, di quelli da ammirare maggiormente, perché aveva rischiato la pelle nelle retrovie. Un lavoro umile, tipico degli uomini del suo meridione, gente sana, che si conquistava il pane lavorando in silenzio, con rigore e abnegazione. Il paese doveva molto al sacrificio di gente come lui, un modello per la nuova America.

Leon aveva lavorato bene, e il pugile era orgoglioso di quegli articoli. Tuttavia, nulla lo rendeva più felice di combattere al Madison Square Garden, l’arena più bella del mondo. Era il luogo dove si celebravano le incoronazioni di fronte al pubblico in adorazione per il nuovo re, il tempio che solo pochi eletti avevano il privilegio di frequentare. E lui, rocco Marchegiano, il figlio di Pierino e Pasqualina, il fratello di Alice, Concetta, Elisabetta, Peter e Sonny, il compagno di tanti ragazzi che si erano persi per strada o erano scomparsi in guerra, stava per conquistarlo, e dire al mondo di che pasta era fatto, cosa significa volere, fortissimamente volere, e sacrificarsi. Era scritto nel suo destino.
Si era preparato al match con grande rispetto per il pugile che avrebbe affrontato. È meglio essere umili, gli aveva spiegato Leon, la rabbia troverà comunque il proprio modo di esplodere. Succede sempre così, Rocky, e bisogna incanalarla, utilizzarla, mai diventarne schiavo, perché è una delle cose che fa andare avanti il mondo. Era uno dei concetti che Leon ripeteva sempre, e quando ne parlava si infervorava tutto, e poi cominciava a divagare su argomenti sorprendenti e disparati. Era un suo modo di ricordare chi era, da dove veniva, questo Nicola l’aveva capito. «Credi che Churchill non provasse rabbia quando i nazisti bombardavano le sue città, e massacravano i suoi compatrioti? Ma quel ciccione pelato ha saputo aspettare, e oggi dobbiamo a lui se siamo qui, liberi di essere quello che vogliamo. E credi che il tuo paesano Michelangelo non fosse pieno di furia contro un papa che gli diceva cosa dipingere? Eppure è riuscito a essere l’artista che era, e la sua rabbia è tutta nelle sue opere, è la sua grandezza.»

Marciano aveva fatto cenno di sì con la testa, anche se non sapeva molto dei personaggi di cui parlava Leon. Ma gli piaceva che lo paragonasse a grandi uomini. No, non lo avrebbe deluso: aveva aspettato questo momento sin da ragazzino, quando aveva ascoltato la radiocronaca dell’incontro con cui Joe Louis aveva conquistato il titolo contro James Braddock, un pugile che non era neanche male, ma che il destino aveva messo contro uno dei più grandi talenti della storia. Davanti alla radio aveva mimato i colpi di Louis e schivato quelli con cui la vittima predestinata cercava, inutilmente, di difendersi. Poi, quando Braddock era crollato al tappeto all’ottava ripresa, aveva chiuso gli occhi e alzato le braccia al cielo. Era stanco ed emozionato, e l’ovazione della folla era anche per lui.
Da allora aveva seguito alla radio tutti i match del brown bomber, e conosceva ogni colpo dei suoi incontri più leggendari, come quelli contro Buddy Baer, Gus Dorazio, John Henry Lewis e Lou Nova, il pugile più scorretto e malvagio che avesse mai calcato un ring. Prima del match si era fatto vedere da Louis mentre faceva flessioni nello spogliatoio, incurante del pericolo di stancarsi. Era rimasto qualche minuto a testa in giù, reggendosi solo con le mani mentre sorrideva in maniera strafottente, ma poi, sul ring, venne umiliato per sei riprese prima di essere abbattuto definitivamente, come quei torelli nervosi, a cui il torero taglia le orecchie a fine corrida e le mostra al pubblico esultante.

Pochi incontri lo avevano appassionato come quello con Tony Galento, un gigantesco barile di birra detto Two Tons Tony. Sembrava fosse una questione personale, e la sfida aveva eccitato così tanto il pubblico che gli organizzatori avevano deciso di farla disputare in uno stadio. Anche Galento era un ceffo del quale era meglio non conoscere il passato, e la sera prima dell’incontro aveva telefonato a Louis per dirgli che era un negro di merda e un barbone, e che l’indomani, sul ring, lo avrebbe ucciso. Aveva avvertito prima i giornalisti, e quando la minaccia venne pubblicata a caratteri cubitali su tutti i quotidiani, i cinquantaseimilaottocentoventicinque posti dello Yankee Stadium si riempirono in ogni gradinata e in molti sperarono che mantenesse la promessa. Perché l’idea che fosse un nero l’uomo più forte del mondo poteva andare bene solo nei ghetti o in quei paesi di barboni del Sud, molto meglio Tony due tonnellate. Poche volte si era visto sul ring tanto disprezzo tra due pugili, ma Louis riuscì a mantenere la calma, sapeva di avere di fronte uno sbruffone senza talento. Non reagì agli insulti che l’altro continuò a lanciargli mentre l’arbitro ripeteva le regole prima dell’inizio dell’incontro, e si limitò a pensare ai nonni schiavi, ai genitori che erano venuti dall’Alabama ad assistere al match, ai sette fratelli sparsi per l’America che erano incollati alla radio come rocky. Cominciò a ridicolizzarlo sin dalle prime schermaglie, e ad anticiparne ogni colpo in velocità. Galento era proprio un barile di birra, lento, rumoroso e goffo. Si era piantato al centro del ring e cercava di seguire Louis che gli danzava intorno e lo colpiva con jab velenosi e saettanti. Che spettacolo era vederlo combattere, una lezione di boxe. Ed era così bello mentre danzava sul ring con il suo corpo d’ebano. Quando tornava al proprio angolo sorrideva sempre verso un punto preciso dello stadio. E faceva un gesto tranquillizzante, pieno di orgoglio, doveva essere il posto dove erano seduti i genitori.

Sembrava un incontro senza sorprese, nel quale bisognava solo aspettare il colpo finale del toreador, quello che avrebbe fatto stramazzare quell’immondo esemplare di toro, ma, improvvisamente, al terzo round, Galento riuscì a colpire Louis con un gancio sinistro potentissimo, in cui mise tutto il suo odio e la sua frustrazione. Un colpo esplosivo, che avrebbe sfondato un muro, che avrebbe ucciso chiunque, e che risuonò minaccioso e liberatorio in tutto lo stadio. Ci fu un attimo di silenzio pietrificato, seguito da un urlo di sollievo, che cominciò a crescere sempre più forte. Il nero era al tappeto. Come meritano i barboni. Che tornasse nel suo ghetto, o nella foresta. Esplosero mille flash intorno al ring, ma Louis non diede troppa soddisfazione ai fotografi perché si rialzò immediatamente, come se fosse scivolato, e non avesse provato alcun dolore. Scosse appena la testa, mandò un sorriso tranquillizzante nella solita direzione, poi guardò fisso negli occhi il suo rivale. E sullo stadio scese nuovamente il silenzio, perché da quel momento Louis diede agli spettatori e al mondo intero la dimostrazione di cosa si può fare quando si libera la propria rabbia. Colpì Galento sul volto, sui fianchi, sul collo, e poi di nuovo sul volto, sulla tempia, sulle orecchie, sul naso, sembrava che volesse farglielo rientrare nella testa. Galento cercò di indietreggiare, poi di chiudersi a riccio, ma non c’era nulla da fare. Aveva esaurito ogni energia. Louis non gli lasciava tregua, sbuffava, ansimava, colpiva e colpiva ancora, sempre più forte. Sembrava che avesse piacere a colpirlo su quel collo taurino, e che volesse dimostrare di poterlo staccare dal corpo a forza di colpi. Ganci, jab, diretti, perfino uppercut. Violenti, cattivi. Two Tons Tony fu salvato dalla campanella, ma la mattanza ricominciò appena riprese il nuovo round. Il suo volto era diventato gonfio e deforme, e dal naso e sulle guance scorreva molto sangue. Gli occhi si erano ridotti a due fessure, ma per quel poco che lasciavano trapelare mostravano un orgoglio che stava cedendo al terrore. Louis cominciò a colpirlo sulla bocca e il sangue inondò la dentiera, poi sulle costole, dall’alto in basso, voleva spaccarle. Fu l’arbitro a mettere fine al massacro, e Galento non ebbe neanche la forza di reagire, si accasciò sul seggiolino e poi lasciò che i secondi lo accompagnassero a braccia negli spogliatoi. Piangeva.

Non si salutarono nemmeno, dopo l’incontro, e Two Tons Tony finì la propria carriera nel circuito patetico delle esibizioni: per raggranellare un po’ di soldi accettò di combattere contro un canguro, un orso, e una volta anche contro una piovra che gli si attaccò a un avambraccio mentre lui la colpiva e le lanciava ogni sorta di insulto, come se fosse la sua vita.
Marciano era rimasto molto impressionato da quell’incontro e dalla sorte di Galento, e aveva pensato che bisogna sempre avere coscienza dei propri limiti. E Louis in quel periodo sembrava non ne avesse, come aveva dimostrato nel suo incontro più perfetto, spietato e commovente, nel quale aveva demolito al primo round Max Schmeling, l’ulano nero, l’eroe del nazismo, e tutta Harlem era scesa per strada, illudendosi, per una notte, di essere il centro del mondo.

Ora il bombardiere nero era logoro e anziano, ma chi sapeva di boxe lo considerava ancora il più grande. Il suo regno era durato dodici anni, e ne aveva distrutti tanti, di pugili dalla potenza impressionante. L’incontro con Galento aveva insegnato a Marciano che Louis sapeva essere cattivo sul ring, ma c’era qualcos’altro che lo rendeva un campione: non era neanche la tecnica straordinaria, o l’incredibile velocità con la quale surclassava atleti molto più robusti. La sua grandezza era nella testa, nel modo in cui sapeva qual era il momento di colpire, e come.
C’era da aver paura, a ripensarci, e forse una volta non ci sarebbe stata storia, ma oggi Marciano sapeva che avrebbe potuto sconfiggerlo. Perché il tempo passa per tutti.
E lo capì nel momento in cui tutti gli incontri si decidono, quello in cui i due sfidanti salgono sul ring e si guardano negli occhi mentre l’arbitro dà le ultime raccomandazioni. Il momento in cui Galento aveva continuato a insultare Louis, quello in cui Leon gli aveva detto di non mostrare alcun timore e tenere lo sguardo, senza paura, con sicurezza, perché ormai il bombardiere nero non era nient’altro che un vecchio campione. Anzi un campione vecchio.
E Marciano aveva seguito le istruzioni. Louis era alto, bello, carismatico, aveva il volto ancora intatto, e il sorriso antico, di chi ha visto i leoni correre liberi nella savana e sbranare le gazzelle.
Ma nel suo sguardo non c’era più la volontà di colpire e conquistare, ora c’era solo quella stanchezza piena di dolore che doveva aver provato il nonno di fronte agli insulti della vita. Si stava esibendo per la sessantottesima volta di fronte a un pubblico che urlava e godeva per la violenza che lui generava e subiva, e mai come quella volta sentiva che tutto quello che aveva fatto aveva finito per riportarlo sul ring, e che solo in un’arena avesse la parvenza di un senso. Era stato il campione, il più grande di tutti, e aveva la sua cintura, ma fuori dal ring non era nient’altro che il barbone che aveva detto Galento. Aveva accettato di combattere per soldi, quelli mancavano sempre, ma l’unica cosa che lo spingeva quella sera, e di cui aveva bisogno per sentirsi vivo, era dimostrare di essere ancora il campione. Il più grande.
Nei primi round Louis spiegò a Marciano perché era un mito e perché la boxe era chiamata la noble art. Il pugile italiano era forte, granitico, e non indietreggiava mai, ma lui riusciva ad anticiparne i colpi e frustrarne le intenzioni. Era persino crudele nella dimostrazione di superiorità. Com’erano eccitanti le sue combinazioni di jab e diretti, e quanta eleganza nel modo in cui colpiva indietreggiando. Come se fosse costretto a farlo, per rispettare le regole e la sacralità della liturgia.
La boxe di Marciano al confronto era legnosa, macchinosa, prevedibile. C’era bisogno di ben altro per abbattere quel mito che ignorava l’inesorabilità del tempo, un vero campione non può avere solo potenza.
Alla fine del sesto round Leon cominciò a preoccuparsi, poi a innervosirsi e a sbuffare, il nero era avanti ai punti, aveva una tecnica troppo raffinata per quel cretino del suo italiano. Aveva fatto male a dare tutta la sua fiducia a uno che al massimo poteva fare lo scaricatore di porto.
Ma proprio quando andò a sedersi nel minuto di riposo, Louis sentì tutto il peso della propria età e dei combattimenti che aveva dovuto affrontare dentro e fuori dal ring. respirò con affanno e guardò il pubblico. Sembrava che urlassero tutti schiamazzi indistinti, violenti, inutili.
Quando suonò il gong sentì che le gambe erano diventate improvvisamente di pietra, e che i colpi di Marciano erano sempre più pesanti. Che quel pugile italiano era così giovane, mentre lui era stanco di esibirsi, di colpire, di essere colpito, persino di alzare le mani in segno di vittoria. Pensò a quanti anni erano passati dall’incontro con l’ulano nero, quel suo trionfo che fece esultare il paese come se avesse vinto la guerra. Pensò ai pugili scorretti e a quelli inappuntabili, che salivano sul ring con un rispetto che lui non aveva mai conosciuto nella vita quotidiana. E pensò che gli uni e gli altri erano disperati, perché solo una persona disperata si guadagna da vivere con un lavoro come quello. riuscì a resistere sino alla fine del round stringendosi in clinch alle braccia di Marciano, ma allo scoccare della ripresa successiva capì che non avrebbe avuto scampo. Lo capì anche Marciano quando ne vide lo sguardo che si era improvvisamente spento, e sferrò un gancio potentissimo che lo fece cadere di botto, come un uomo che sente tutto a un tratto il peso del mondo intero. Louis fece appello a tutto l’orgoglio di cui era capace e si rialzò mentre il pubblico già esultava per il nuovo re. riuscì appena a rallentarne la furia per qualche secondo, perché Marciano lo colpì con una combinazione di ganci e diretti che prima lo piegarono in due e poi lo fecero volare a testa in giù sulle corde e fuori dal ring. Perse conoscenza mentre il rivale alzava le braccia e guardava eccitato Leon e poi il pubblico in delirio.
Aveva eseguito il suo compito. Il mito era stato abbattuto e lui ne aveva preso il posto. Lì, al Madison Square Garden, nel cuore del mondo.
Nicola guardò Marciano con ammirazione e pensò che l’America gli aveva regalato una nuova lezione.