Gli infortuni sul lavoro in Italia
Come funzionano le norme in materia, quali sono i nodi da sciogliere (uno su tutti, fondamentale), e poi numeri, dati e statistiche
di Marco Surace
Nelle scorse settimane sono stati pubblicati due diversi e importanti documenti sugli infortuni sul lavoro e il lavoro nero in Italia: il report dei risultati dell’attività di vigilanza svolta dalle strutture ispettive del Ministero e degli enti previdenziali nell’anno 2011, e la terza relazione sull’attività svolta dalla commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro. L’analisi del loro contenuto può essere utile a capire il fenomeno, le sue evoluzioni e le sue norme, andando oltre i benintenzionati ma superficiali appelli che seguono spesso gli incidenti.
Il tema degli infortuni sul lavoro, dei controlli sul lavoro nero e degli interventi necessari per contrastare tali fenomeni torna infatti periodicamente e temporaneamente di attualità dopo ogni evento tragico (Thyssen 2007, Molfetta 2008, Capua 2010, Barletta 2011, solo per citarne alcuni), e a dire il vero se ne parla più di frequente dal 2006, da quando il neo Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ne fece un punto di principio chiedendo con insistenza alle forze politiche un intervento deciso sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. Nel 2008, con l’entrata in vigore del DLgs. 81/08, il cosiddetto testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, dopo trent’anni di tentativi falliti, l’Italia ha ottenuto finalmente un corpus normativo quasi completo in materia.
Chi controlla, e come
I controlli sulla sicurezza nei luoghi di lavoro vengono svolti principalmente dal personale ispettivo delle aziende sanitarie locali, con oltre 3000 ufficiali di polizia giudiziaria, e nei cantieri edili anche dagli ispettori tecnici delle Direzioni Territoriali del Lavoro (DTL, fino a qualche settimana fa chiamate Direzioni Provinciali del Lavoro, diversi anni fa Ispettorati del Lavoro).
I dati, riferiti al 2010, parlano di oltre 160 mila aziende (circa l’8 per cento del totale, seppur con una distribuzione disomogenea tra le regioni d’Italia), 70mila cantieri, oltre il 20 per cento del totale, e 6000 aziende agricole controllati ogni anno. Quasi la metà dei controlli si concludono con l’accertamento di violazioni penali in materia di prevenzione degli infortuni.
Ciononostante le persone si fanno male sul lavoro tutti i giorni. Anche se in costante e lento calo negli ultimi dieci anni, ogni settimana circa 14.000 persone si infortunano, 700 di loro restano gravemente invalide e 16 muoiono, mentre altre 4 muoiono andando al lavoro. Nel calcolo degli infortuni sul lavoro, mortali o meno, sono contenuti infatti anche quelli “in itinere”, che comprendono l’impiegata falciata sulle strisce davanti all’ufficio e l’operaio che correndo in motorino per andare al lavoro non rispetta lo stop e viene preso da un autobus. Le stime ufficiali dell’INAIL per il 2010 parlano di 950 morti e 775mila infortuni, rispettivamente il 6,9 e l’1,9 in meno del 2009 (6,2 e 1,2 per cento se rapportiamo il dato alle ore effettivamente lavorate su base nazionale, in lieve calo rispetto all’anno precedente).
Raramente viene data la giusta rilevanza al fenomeno delle malattie professionali, che provocano un numero di decessi meno stimabile con precisione ma almeno doppio rispetto agli infortuni, con oltre 40mila nuove denunce di malattia professionale registrate ogni anno, secondo una tendenza crescente, opposta a quella degli infortuni (questo grafico è molto eloquente, pdf).
L’ISTAT stima inoltre che circa il 20 per cento degli infortuni occorsi sfuggano alle rilevazioni INAIL perchè non denunciati, principalmente in casi di “lavoro nero”. E qui c’è un punto importante.
Il lavoro nero
Nel 2011 hanno operato in Italia circa 3700 ispettori del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, compresi i carabinieri del Nucleo Ispettivo che operano presso le DTL, 1500 dell’INPS, 300 dell’INAIL e qualche decina dell’ENPALS. A volte congiuntamente, spesso in modo indipendente. Nel 2010 erano il 5 per cento in più, sono diminuiti per pensionamenti e blocco parziale del turn-over.
I controlli sulle imprese avvengono ovviamente senza preavviso, secondo campagne specifiche (gli operatori turistici in estate, per esempio, o la vendemmia in autunno), secondo criteri territoriali (un comune, un quartiere alla volta), merceologici (i cantieri, le discoteche, i ristoranti) o semplicemente a vista.
Nel 2011 sono state controllate oltre 244.000 imprese, il 10 per cento circa dei 2 milioni di imprese registrate in camera di commercio, con un calo rispetto al 2010 quando le aziende sottoposte a controllo erano state 270000, pari al 14 per cento del totale. Nel 60 per cento dei casi sono state riscontrate irregolarità varie, sia di tipo amministrativo – come la maggior parte delle violazioni in materia di lavoro e legislazione sociale – che di tipo penale. I lavoratori irregolari individuati sono stati quasi 280.000 e di questi oltre 105.000 erano completamente in nero. A questi vanno aggiunti i controlli della Guardia di Finanza, che hanno permesso l’emersione di altri 13mila lavoratori in nero. Per un totale di recupero contributi e premi evasi di oltre 1,2 miliardi di euro.
Se il numero di lavoratori in nero supera il 20 per cento del totale si procede anche alla sospensione dell’attività imprenditoriale, che viene revocata solo a seguito della regolarizzazione dei lavoratori e del pagamento di una prima sanzione di 1500 euro. Nel 2011 i provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale sono stati 8.564, principalmente nel settore dei pubblici esercizi, il 36%, nel settore dell’edilizia, il 28%, e nel settore del commercio, 14%, a conferma del fatto che il settore del terziario è quello maggiormente a rischio di lavoro sommerso, sia per il tipo di attività svolta che per le modalità di effettuazione della prestazione lavorativa. L’idea della sospensione, leggermente rivista e ampliata da norme successive, si deve all’allora ministro dello Sviluppo Economico Pier Luigi Bersani, che la introdusse per primo con un Decreto del 2006 limitatamente ai cantieri edili.
La relazione parlamentare evidenzia inoltre alcuni fattori da tenere particolarmente presenti, quali l’utilizzo delle attrezzature agricolo-forestali, la formazione dei lavoratori (e dei loro formatori), i problemi della sicurezza nel settore degli appalti e subappalti e la qualificazione delle imprese del settore edile.
I lavoratori edili
La relazione parlamentare approfondisce molto il tema dei lavoratori edili, tra i più esposti sia al lavoro nero che agli infortuni sul lavoro. La relazione osserva che “negli appalti privati la violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro sia molto più frequente e difficile da arginare” e che esiste un fenomeno particolare: “lavoratori autonomi che si iscrivono come imprenditori edili senza avere intorno a sé alcuna struttura organizzativa stabile e, una volta preso un appalto, eseguono il lavoro avvalendosi di altri lavoratori autonomi reclutati per l’occasione con il meccanismo del subappalto. Spesso sono ex titolari di imprese edili che utilizzano surrettiziamente i loro ex dipendenti (diventati a loro volta liberi professionisti) con una nuova formula organizzativa che consente loro di pagare meno tasse e contributi, ma altre volte si tratta di persone senza esperienza specifica che mettono insieme squadre di lavoranti più o meno raccogliticce”.
In questo modo imprese o singoli lavoratori privi di formazione lavorano a prezzi più bassi delle imprese e dei lavoratori più esperti e specializzati, offrendo prestazioni di qualità inferiore e soprattutto non adottando le norme in materia di sicurezza sul lavoro, “sia perché hanno una formazione inadeguata, sia perché, al fine di spuntare prezzi più bassi, tendono spesso a tagliare proprio le spese per la sicurezza”.
I falsi autonomi
A loro è legata una condizione di “lavoro grigio” molto aumentata negli ultimi anni: centinaia di migliaia di artigiani (non solo edili) che nei fatti svolgono lavoro dipendente ma vengono pagati come professionisti con partita IVA. Senza obbligo di contributi, tutele, diritti. Con apparenti vantaggi economici immediati per entrambe le parti: per il datore di lavoro, che può godere di una elevatissima flessibilità di organico – nessuno da licenziare, nessun problema di permessi o malattie – a prezzi complessivamente vantaggiosi. E per il lavoratore, che rinuncia a qualunque diritto o tutela ma incassa, quando riesce a lavorare a tempo pieno, uno stipendio anche doppio rispetto a quello che gli competerebbe se fosse un dipendente con la stessa mansione. Ci sono interi cantieri edili gestiti da squadre di autonomi, ci sono officine con un autonomo per ogni tornio, ci sono studi tecnici con autonomi che disegnano progetti al CAD seduti allo stesso pc 10 ore al giorno.
Che cosa fare
Qualcosa comunque sembra si stia muovendo. Già nel 2008 si era parlato della cosiddetta “patente a punti”, prevista dall’articolo 27 del DLgs. 81/08 come “Sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi”, ma finora priva dei necessari decreti applicativi. Nell’ottobre scorso è stato presentato al ministero del Lavoro un “Avviso Comune” firmato dalle principali associazioni datoriali e sindacali che operano nel settore edile, che propone una bozza dettagliata di decreto applicativo per l’istituzione della patente a punti in edilizia, rendendola obbligatoria per autonomi e imprese.
È un documento orientativo, non cogente, ma esprime un indirizzo chiaro in merito ai diversi aspetti legati alla qualificazione delle imprese (la presenza di un responsabile tecnico con formazione adeguata, la capacità tecnico finanziaria dell’impresa) e ai criteri di calcolo, assegnazione e revoca dei punti, in maniera analoga, anche se più complessa, a quanto accade con la patente di guida dal 2003. È un discreto punto di partenza, con alcuni aspetti da rivedere e con un chiaro punto debole: non è stato firmato dai settori edilizia di CNA, Confartigianato e Casartigiani, ovvero le organizzazioni più rappresentative dei lavoratori autonomi.
foto: SEBASTIEN BOZON/AFP/Getty Images