Commissariare l’Italia
Michele Salvati spiega perché all'Italia dopo Monti serve Monti, o qualcosa del genere
L’articolo di Michele Salvati sul Corriere della Sera di oggi affronta il problema destinato a diventare da qui al prossimo anno la grande discussione politica italiana, quella sul dopo Monti. Salvati dice di avere fiducia nella democrazia e nei partiti ma si dice anche convinto che “la nostra democrazia abbia bisogno di riforme radicali per produrre buon governo”. E quindi auspica, argomentando con riflessioni semplici ed efficaci, che l’intera prossima legislatura sia guidata da un governo “tipo Monti”, allo scopo di realizzare “una seconda Ricostruzione”. La tesi è degna di nota anche perché viene da uno dei più convinti e autorevoli sostenitori del bipolarismo, in Italia.
Ricordo che nella primavera del 1997, incontrandoci al ristorante della Camera dopo una riunione della Commissione bicamerale, Carlo Giovanardi mi apostrofò press’a poco così: «Caro Salvati, voi bipolaristi vi sbagliate di grosso. Questo è un Paese che a malapena riesce a mettere in piedi un ceto di governo decente. Cercare di costruirne due, e in concorrenza fra loro, può produrre solo guai». Quest’episodio m’è tornato in mente adesso, riflettendo sull’esperienza del governo Monti e soprattutto su che cosa avverrà alla sua fine, nella primavera dell’anno prossimo.
Giovanardi parlava da vecchio democristiano e rimpiangeva i governi della Prima Repubblica, spazzati via da Mani Pulite e da una legge elettorale che spingeva i partiti a raggrupparsi in due schieramenti contrapposti. Giovanardi aveva ragione sul futuro, ma si sbagliava sul passato. Della Prima Repubblica, e specialmente della sua ultima fase, c’è poco da rimpiangere: la sua incapacità di governare è testimoniata dal suo collasso e dall’enorme debito pubblico che ha lasciato in eredità alla Seconda. Ma anche questa non è riuscita a produrre un buon governo: lo schieramento che aveva stravinto le elezioni del 2008 ha dovuto gettare la spugna e passare il testimone a un governo «tecnico», che ha iniziato alacremente ad affrontare l’emergenza economica e in tre mesi ha preso decisioni che i governi «politici» si trascinavano appresso da dodici anni.
Che cosa volete che ne pensino i cittadini, se non che i partiti italiani si sono rivelati incapaci, sia nella Prima che nella Seconda Repubblica, sia con una legge elettorale proporzionale che con una maggioritaria, di governare l’economia? Che la ricerca di un consenso elettorale a breve termine, la paura di scontentare frazioni più o meno vaste del loro elettorato, residui ideologici o interessi personali, impediscono loro di prendere le decisioni necessarie ad affrontare i problemi di lungo termine che affliggono il nostro Paese? Che non riescono ad adottare quella «vista lunga» di cui tanto parlava Tommaso Padoa-Schioppa? Anche in altri Paesi, nel giudizio dei loro cittadini, i partiti non se la cavano bene, ma non sono caduti nei sondaggi ai livelli infimi in cui si trovano i partiti italiani. E neppure prendono in considerazione, quando insorgono difficoltà, di passare la mano a governi tecnici, come da noi è avvenuto sia nel 1993 che nel 2011: o producono un governo politico alternativo, o, al più, una grande coalizione, ma tutta politica. Questo però avviene perché il governo «politico» non ha lasciato marcire la situazione sino al punto in cui questa diviene ingestibile per una politica normale.
Col tempo i problemi italiani si sono aggravati, sino a richiedere un’opera di ricostruzione economica e istituzionale, e un impegno di risanamento morale, di dimensioni simili a quelle della fase postbellica. Un’opera e un impegno che dovranno protrarsi molto oltre la primavera del 2013. E soprattutto che richiedono, per aver successo, un disegno coerente e perseguito per lungo tempo senza inversioni di rotta: ciò non riguarda solo l’economia, ma le istituzioni, la pubblica amministrazione e soprattutto la questione morale, l’illegalità e la corruzione che ammorbano il Paese. Un disegno che, nelle sue linee essenziali, non è né di destra, né di sinistra, che non riguarda la democrazia, ma le precondizioni della democrazia, quegli orientamenti comunemente condivisi che sono necessari affinché la dialettica tra i partiti possa svolgersi senza esasperazioni dannose.
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foto: LaPresse