La foto di Dino Zoff
Oggi compie gli anni il portiere che tenne la coppa nell'82, e che seppe come tenerla
di Luca Sofri
Oggi è il settantesimo compleanno di Dino Zoff, il portiere della Juventus e della Nazionale che nel 1982, a quarant’anni, vinse i leggendari mondiali spagnoli dell’82 in porta di una squadra molto più giovane, dopo essere stato sotto accusa per le presunte disattenzioni sui tiri da lontano a quelli del ’78 in Argentina. Poi fu allenatore, e allenatore della Nazionale, e da preso in giro per la sua brusca timidezza divenne simbolo di sobrietà e discrezione ben prima che arrivasse il governo Monti. Di questo simbolo e di molte altre cose ha scritto Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, in un capitolo del suo libro Un grande paese.
È una vecchia pagina di «Time», ingiallita dal suo quarto di secolo, e con il segno dello scotch sugli angoli. L’avevo attaccata al muro, quando avevo diciassette anni, e me la porto dietro da allora, di casa in casa, nella ricca scatola dei ritagli e ricordi (si è appiccicata assieme al biglietto di Bob Marley a San Siro e a un vecchio foglietto a righe su cui è scritto: TANTI BACI DAL TUO PAPÀ). La pagina di «Time» è fatta così: c’è una foto in bianco e nero che occupa la parte superiore. Al centro della foto c’è la Coppa del Mondo. L’Italia aveva appena vinto i Mondiali spagnoli. La coppa è in mano a Dino Zoff, circondato dai suoi compagni durante il giro di campo al Santiago Bernabeu, alla fine della partita in cui battemmo la Germania. Siamo nei minuti successivi al «Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo» di Nando Martellini. Come noi davanti alla foto, anche Zoff guarda la coppa. Non la esibisce, non è rivolto verso il pubblico, i fotografi, noialtri: non dice «Ecco, guardate un po’ cosa abbiamo combinato!». Zoff guarda la coppa porgendola a Gentile, e insieme la porge a tutti noi, e pensa «prego, è anche vostra», con quell’aria da Zoff che aveva Zoff.¹ Quell’aria con cui la volta che Silvio Berlusconi gli disse che avrebbe dovuto far giocare la Nazionale in un altro modo – Zoff era diventato allenatore, nel frattempo – lui rispose: «Ci sono rimasto particolarmente male per le sue parole. Certamente non ho dormito bene». E si dimise.
Parentesi. In questa storia, Zoff è un modello. Quelle parole sono un insegnamento. Disseminare insegnamenti, predicare col proprio esempio. Quelle parole sono un esempio di misura, umiltà, mancanza di vittimismo. La misura nelle parole usate per definire i propri guai è una delle cose che abbiamo perduto, convinti tutti che terribili persecuzioni e sfortune si accaniscano sulle nostre nobili e autorevoli esistenze. Ho trovato un altro ritaglio, rovistando nella scatola di Zoff, che viene da una vecchissima copia del «Manifesto». Nel giornale era pubblicato il racconto di un anziano signore tedesco, Heinrich Steiner, che aveva fatto parte di un gruppo di intellettuali e artisti – soprattutto ebrei – che vivevano a Firenze prima della guerra e che si ritrovavano alla pensione Bandini. Molti di loro erano stati deportati e uccisi nei campi. Il «Manifesto» aveva presentato l’articolo in prima pagina con l’illustrazione di un brandello di una vecchia lettera che uno di quegli artisti, Rudolph Levy, aveva scritto alla signora Elena Bandini il 21 dicembre 1943:
Cara signorina, avrete saputo già la disgrazia che mi è capitata. Sono in prigione alle Murate da più di una settimana. Dio solo sa quando potrò uscire. È duro per un uomo di 68 anni che non ha mai fatto male a nessuno ritrovarsi in questa situazione. Pazienza. Cordiali Saluti. Rodolfo Levy.
A rileggerle adesso, come il giorno in cui le ritagliai dal «Manifesto» quelle parole di understatement, quella capacità di affrontare le catastrofi con minor vittimismo e debolezza di quelli con cui oggi si affronta un mal di gola mi sembrano spettacolarmente esemplari: gli americani usano quella parola svenevolmente new age che è «inspirational». Noi non ce l’abbiamo una parola così, nemmeno svenevole: sarà perché non capita di doverla usare.
Torniamo alla pagina di Zoff. È una pagina pubblicitaria, comprata da «Time» sullo stesso «Time»: immagino comparisse solo sull’edizione internazionale, o europea, non so. Per compiacere i lettori e gli inserzionisti italiani, per confermare un rapporto con questa clientela. Ma non è importante. Sotto la fotografia c’è scritto «Suddenly, the whole world is italian», che vuol dire «All’improvviso, tutto il mondo è italiano». O anche «Siamo tutti italiani».
Quella pagina si impolverò, ingiallì e una volta si strappò, ma è bella anche con un pezzo di scotch in un angolo. E sto rischiando di rinnovare il fondato quanto trito luogo comune sugli italiani patriottici solo con la Nazionale di calcio.² Però in quella foto c’è molto più che il calcio: c’è un italiano di cui essere fieri che è al centro dell’attenzione del mondo e sa come comportarsi. C’è l’Italia al centro del mondo, e si capisce che non si tratta solo di calcio.³
Poco dopo l’11 settembre e l’invasione americana dell’Afghanistan, John Twohey scrisse sul «Chicago Tribune» un articolo intitolato Mostriamo agli afgani il cuore, l’anima, la bellezza dell’America: la nostra cultura parla da sola. L’idea – ovviamente paradossale, un sistema per dire «non limitiamoci ad andare là coi fucili imbracciati» – era che agli afgani si dovesse mostrare quello che l’America offriva loro non solo mandando cibo e aiuti, ma grazie anche a «un altro arsenale». «Nei pacchi paracadutati dovremmo mettere foto, videocassette, nastri»: seguiva un elenco del tutto personale di una trentina di cose che secondo l’autore sono un campione della bellezza dell’America. Una lista molto pop, molto «Anima mia», ma con una dose di patriottismo tradizionale mediato sempre da uno sguardo attento alla grandezza estetica: ci sono Judy Garland che canta Over the Rainbow e il discorso di Martin Luther King, l’ultimo tiro di Michael Jordan con i Chicago Bulls e la discesa di Neil Armstrong sulla luna, la folla che accoglie Charles Lindbergh a Parigi e il Primo Emendamento della Costituzione, i fumetti di Calvin e Hobbes e le foto di Ansel Adams. Eccetera. Il patriottismo dell’America e la sua pop culture si sovrappongono molto facilmente. Un paese giovane, libero da ingombranti romanità e cappelle sistine che legittimino ogni attaccamento al vecchio, ogni resistenza alla modernità e a una coerente ricostruzione di sé. Libero.
Si può fare una cosa del genere per l’Italia, un riassunto di cultura italiana non troppo stereotipato e anacronistico, sincero? Si può rimettere insieme un repertorio di singoli orgogli nazionali, su cui appoggiare la ricostruzione di un orgoglio nazionale (brrr, che brividi: «or-go-glio-na-zio-na-le»)? Da noi la dissociazione tra i simboli del patriottismo istituzionale e la cultura popolare contemporanea è assai più vistosa: pensate solo all’elmo di Scipio. «Le porga la chioma.» Mi faccia il favore. Ma ognuno ha una sua lista di cose «italiane»: io senza pensarci troppo ci metterei per esempio i versi «L’amore che strappa i capelli è perduto ormai» di Fabrizio De André, la stazione di Santa Maria Novella, i fumetti di Gipi, la lettera d’addio di Gabriele Cagliari, Soldini quando andò a prendere Isabelle Autissier, Giorgio Ambrosoli, Alex Langer, gli «angeli del fango» dell’alluvione fiorentina, quel «Pazienza» scritto in italiano da Rudolf Levy. E anche quella benedetta finale, per l’urlo di Tardelli e per quello di Nando Martellini. Ovvero, si può costruire e dare forza a un patriottismo proprio, sia personale che collettivo, ma non per questo meno vero e appassionato, da opporre – da sovrapporre, anzi – a quello solenne, datato, retorico, a volte trombone e a volte sincero di chi pretende che l’amor patrio passi solo per la bandiera, Carlo Cattaneo, il nostro-bel-Rinascimento-che-tutto-il-mondo-c’invidia ed espressioni come «l’amor patrio»? E si può farne un nuovo promettente germoglio di «identità nazionale»? Si può? Si può sentirsi estranei al centocinquantennale dell’Italia ma non all’Italia? Non sembrerebbe, a guardarsi intorno.
Starete pensando che per quanto rimpiazziamo i contenuti, sempre di patria stiamo parlando, ed è il concetto stesso a essere anacronistico: siamo cittadini del mondo, e ogni inclinazione localistica ci porta indietro. È un pensiero facile e immediato, e l’ho avuto anch’io a lungo. Ma ho cambiato idea. Il «proprio paese» esiste. Gli vogliamo bene, anche se non sappiamo a cosa. Il «proprio paese» serve. Se non altro perché qualcuno deve pur vergognarsene quando va a rotoli. Non bastassero tutte le ragioni che ognuno può avere di affetto e legame col «proprio paese», l’idea del «proprio paese» serve a farlo funzionare, il proprio paese. Il fattore che più alimenta il declino dell’Italia – assieme alla mediocrità della sua classe dirigente, politica e non – è la disillusione sul suo futuro e sulla sua stessa esistenza in vita. È che molti di quelli che potrebbero e vorrebbero fare qualcosa per portare l’Italia da un’altra parte non riescono più a trovarla, quell’Italia da portare da un’altra parte. È che si sentono soli. È che il peggio di questo posto sta prevalendo sul meglio, e il posto diventa irriconoscibile. E come lo miglioriamo, un posto che non c’è più e che non è più il «nostro paese»?
Prima cosa da fare: crederci. Anzi seconda. Prima cosa da fare: decidere in cosa credere. Possono bastare la Venere del Botticelli e i faraglioni di Capri?
A metà del 2009 il Ministero del Turismo riaprì il portale Italia.it, che è una storia nella storia dell’immagine dell’Italia e della sua comunicazione. Ecco come la racconta Wikipedia, persino con indulgenza.
Nel 2004 il governo Berlusconi ebbe l’idea di immettere sul web un portale che facesse da vetrina per l’Italia all’estero e, tramite uno stanziamento di diversi milioni di euro, affidò la sua realizzazione al consorzio Sviluppo Italia, che a sua volta si rivolse alle ditte Ibm Italia S.p.A, Its S.p.A e Tiscover Ag. Responsabile dello sviluppo del sito fu nominato Lucio Stanca, ministro per l’Innovazione e le Tecnologie nel secondo e terzo Governo Berlusconi,&sup4 che nel marzo 2004 ottenne un primo stanziamento di 45 milioni di euro, e successivamente un ulteriore stanziamento di 25 milioni di euro, per arricchire i contenuti del sito con progetti cofinanziati dalle Regioni. Ciò nonostante, il sito venne completato e messo online solo nel febbraio 2007 e, fin dall’inizio, suscitò parecchie polemiche per le notevole quantità di errori e bug di vario tipo presenti in esso: sito poco attraente e poco navigabile, mancanza del rispetto della legge Stanca e vulnerabilità agli attacchi informatici. A fomentare ulteriormente le polemiche sopraggiunse il fatto che un blogger, Marco Pugliese, una volta ottenuto l’accesso al codice del sito, lo ristrutturò per intero da solo in una settimana rendendolo molto più funzionale dell’originale (e mettendo quindi ancor più in evidenza lo spreco di denaro pubblico effettuato). Venne inoltre creato un sito, con relativo blog, per denunciare pubblicamente lo spreco, chiedendo l’accesso agli atti di realizzazione del progetto. Nonostante tutte le polemiche sorte, il governo preferì non rivelare i documenti sulla vicenda. Il sito trascinò stancamente la propria esistenza per meno di un anno, fino a quando non venne chiuso definitivamente nel gennaio 2008. Ciononostante dopo appena un mese venne diffusa la volontà di rilanciare il portale affidandolo questa volta all’Enit, il cui progetto era quello che era stato ideato inizialmente quando si cominciò a progettare il portale, prevedendo di dare fondi alle regioni perché contribuissero con dei contenuti al sito. In quell’occasione le regioni rifiutarono creando addirittura un sito concorrente, con un ulteriore spreco di soldi; in quest’occasione decisero di accettare, anche in virtù dei fondi stanziati a loro favore per il progetto (21 milioni di euro).
E arriviamo al 2008, e il ministro Brambilla5 fa ricostruire daccapo il «portale del turismo italiano», l’immagine dell’Italia per chi la vuole visitare, italiani compresi. La nuova homepage si apre con una grafica involontariamente demodé e il seguente messaggio6 del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi:
L’Italia è il paese del cielo, del sole, del mare. Un paese magico, capace di incantare e di conquistare il cuore non solo di chi ci vive, ma anche di chi lo visita, di chi lo scopre per la prima volta. Un paese che regala emozioni profonde attraverso i suoi paesaggi, le sue città, i suoi tesori d’arte, i suoi sapori, la sua musica. Un viaggio in Italia, per noi italiani e per chiunque arrivi da ogni parte del mondo, è un viaggio nell’arte e nel bello. L’Italia è magica. Scopritela. Nascerà un grande amore.
Una roba da ubriachi, no? O l’Italia è questa cosa qui? Siamo questa cosa qui? Voi direte che l’immagine dell’Italia in questo contesto è costruita a fini di attrazione turistica, e che è vero che molto turismo internazionale vede esattamente in queste le attrattive dell’Italia. Ancora in questi anni, alla parata del Columbus Day, a New York, l’Italia investe una cospicua dose di impegno e soldi nel rappresentare se stessa davanti agli occhi della parte del mondo più moderna e innovativa attraverso una serie di carri guidati da personaggi travestiti da Romeo e Giulietta o da Galileo Galilei.
Ma anche consentendo questa indulgenza alberghiera: è poi così per tutti? E soprattutto: è questa l’immagine dell’Italia che anche attraverso il turismo vogliamo continuare a perpetuare? Siamo sicuri che fingere di essere il paese della Vespa, delle vigne e dei faraglioni, della Dolce vita e delle macchiette bucoliche vendute agli americani, sia indolore, solo una piccola truffa che aiuta gli albergatori nazionali e i produttori di cartoline mentre l’Italia e gli italiani vanno da un’altra parte? (O due altre parti: una più moderna e creativa e una più arretrata e sciatta, ma entrambe più vere della artificiosa pubblicità del Martini che raccontiamo e ci raccontiamo.)
O non è vero invece che dietro questa comunicazione a se stessi e agli altri dell’Italia stanno una pigra incapacità di analisi dell’esistente (quella che portò per esempio Silvio Berlusconi a promettere che l’Italia non sarebbe diventato il «paese multiculturale» che già era), un tentativo di fuga dalla mediocrità contemporanea che si fa fiero di storie e geografie di cui gli italiani non hanno più alcun merito (anzi, parecchie colpe) e insieme un codardo mettere la testa sotto la sabbia rispetto all’aggiornamento delle proprie ambizioni, della propria crescita, e della propria identità?7
Siamo su una affollata spiaggia sarda, estate 2009, con mia moglie e i bambini. I bambini sono in acqua, io traffico con l’iPhone, mia moglie ha trattenuto un venditore ambulante africano che le sta mostrando dei braccialetti e si è seduto accanto a noi. È senegalese, e la trattativa è già diventata un’intervista: lei gli chiede della sua famiglia e della frequenza con cui torna a casa e vede i suoi. Lui le parla del Senegal, lei c’è stata una volta e dice quello che si ricorda, e alla fine la transazione economica è soddisfacente per tutti. Lui si alza, raccoglie le sue cose, e andando via dice: «Bisogna voler bene al proprio paese».
Quelli che cercano una spiegazione allo scarso attaccamento degli italiani all’Italia e alla convivenza civile e orgogliosa di solito tirano in ballo alcune vicende storiche. La mancanza della Riforma, per esempio. Il nostro essere rimasti un paese cattolico, ospite del Vaticano e del papa, e cattolico nel modo più pigro ed egoista: di quel cattolicesimo fatto di indulgenze e perdoni ideali e che trascura la concretezza delle regole e delle condotte. Quello che le religioni protestanti hanno insegnato in altri paesi in termini di rettitudine, responsabilità, rigore, ruolo della comunità, qua non l’abbiamo visto. Abbiamo amato molto il Signore e poco il nostro prossimo, abbiamo detto molte Ave Maria, e abbiamo rimpiazzato la comunità con la famiglia, con tutto il suo sistema di deroghe e contraddizioni: al punto che «la famiglia» è diventata il modello delle organizzazioni criminali avversarie dello Stato,8 ovvero della comunità principale.
Poi c’è la questione dei Comuni e dei campanili, facilmente associabile a quella delle famiglie: ovvero la tradizione di appartenenza a una comunità che prevale però su principi, valori o regole condivise e legittimate. In cui quindi contano la riga per terra, le mura cittadine, il nome che si porta, la «tradizione»: tutto il resto è nemico.
Un terzo elemento tirato in ballo da chi cerca nella storia le cause della debolezza identitaria della nostra nazione è l’assenza di momenti di unificazione, di catarsi rispetto al passato, di azzeramento, di motivazione collettiva. La nazione è troppo giovane per avere l’orgoglio di un passato comune, e il passato precedente è ricondotto ai campanili e a isolati talenti. L’unità risorgimentale – tra poco ci torno – è molto fragile sotto questo punto di vista: uno dei momenti più liberali e liberatori della sua costruzione è la breccia di Porta Pia, ovvero un evento sentito persino come un sopruso dalle gerarchie cattoliche. Per non dire della fine del fascismo, che fu una guerra civile e a cui non seguì una rinascita comune ma piuttosto una rassegnata convivenza. L’intreccio tra il boom economico, la democrazia conquistata e l’arrivo della modernità portò qualche anno di entusiasmo, un momento sudafricano di speranza prima di accorgersi che molto era rimasto uguale. Perché ho fatto questa sommaria digressione storica? Perché se questi argomenti sono veri e solidi, allora siamo spacciati, no? Non si cambia il passato, e se questo passato è così pesante nel definire quello che siamo, l’unica possibilità che c’è è liberarsene. La teoria prevederebbe quindi la necessità che si verificassero quel momento unificante, quella palingenesi, quel momento di costruzione condivisa che non ci sono mai stati in passato. Dolore, sofferenza, sacrifico, rinascita: una guerra. Non possiamo sognare una guerra (che dalla Bosnia in poi non è più impensabile). Ci deve essere un’altra strada.
Torniamo ancora a quella foto di Zoff e al perché è importante. Non perché si tratti di calcio: altrimenti a farci sentire italiani basterebbe il solito inno nazionale prima della partita. Le porga la chioma. Non parlo di essere «italiani» in senso proprio: lo siamo, ovviamente. Parlo dell’avere caro un sistema di cose condiviso, che somigli a quello che ognuno di noi sente per la sua famiglia, o per la città dove è nato, o per il movimento politico che frequenta, o per il gruppo di amici con cui condivide una passione. Per i suoi simili. Parlo, e questo è il problema, di una cosa che si chiama ahinoi patria. Non ha altro nome che quello lì, complicato come se non bastasse dallo scricchiolio irritante di quella ti e quella erre. Bisognerebbe cambiarle nome, alla patria, e chiamarla più dolcemente: paglia. «Amo la mia paglia» si può dire. «Amo la mia patria», salvo alcuni arditi,9 no («Tutti hanno il diritto di essere patriottici» disse Jon Stewart alla Manifestazione per il buonsenso, sottraendo inni e bandiere al fanatismo di destra).
Dopo l’11 settembre, e nelle prime settimane in cui ancora eravamo «tutti americani», alcuni miei amici riempirono le loro case di bandiere a stelle e strisce. Improvvisarono pennoni, scaricarono da internet sfondi del computer con i pompieri e l’alzabandiera. In Italia le bandiere hanno un destino strano, se ne parla soltanto quando qualcuno le brucia, e di solito sono quella degli Stati Uniti o quella di Israele. Poi c’è lo sbandieramento calcistico, ma non ha niente dietro, è solo uno sbandieramento. Potrebbe esserci anche solo l’asta, tanto gli sbandieratori raramente alzano lo sguardo.
Invece, soprattutto dopo l’11 settembre, questo sentirsi orfani di un’identità comune e di una bandiera per rappresentarla, per alcuni si sfogò sull’America, e per altri addirittura su Israele. La scelta ebbe a che fare con la solidarietà con l’aggredito, ovviamente, e con la prossimità alla sua cultura. Ma per trasformare un istinto di solidarietà con le vittime in una condivisione vera e disposta all’impegno servì un’altra cosa: che l’aggredito reagisse, che si potesse partecipare di una battaglia, di una rivincita, di una vittoria.
Non avevano in casa un tricolore, i miei amici che esposero le bandiere americane. Forse se ce l’avessero lo esporrebbero solo nel momento in cui sentissero il nostro paese colpito, ferito, minacciato. Ma forse non ancora: aspetterebbero che il nostro paese reagisse, che restituisse il cazzotto. Quando Rocky le busca siamo ammutoliti, sofferenti, vorremmo non vedere. È quando Rocky si rialza e comincia a restituirle che ci sentiamo con lui, e gli gridiamo «vai, Rocky!» e ci alziamo sulla sedia. Da destra alcuni dicono che gli italiani sarebbero poco patriottici perché un cinquantennale lavoro di smontaggio dei miti fascisti da parte della sinistra li avrebbe resi tali. Oppure che una cinquantennale colonizzazione culturale li avrebbe resi più affezionati ai miti americani che non a quelli italiani. Può darsi, sia la prima che la seconda. A me pare che in Italia ci sia una forte consuetudine con il fallimento. Con le sconfitte.10 Con le delusioni. Mi pare che ci sia un legittimo disfattismo alimentato da un secolo di smacchi militari, onte storiche, piccolezze politiche. Guerre perdute, un regime di cui vergognarsi, mai un governo che arrivasse al panettone, pastette interne e pochezze internazionali, malfunzionamenti quotidiani, sono sì diventati un luogo comune, ma sono anche l’immagine che l’Italia – alternandola solo a quella delle tragedie e dei dolori – ha dato di sé e a sé nel secolo scorso e nel millennio nuovo. Ancora nel 2009, il momento di maggior ammirazione internazionale l’Italia lo ottenne portando il mondo a vedere come il terremoto aveva ridotto L’Aquila e l’Abruzzo, durante il G8. E nel 2010, quanto ci è piaciuto ottenere ancora la commiserazione mondiale su Pompei sbriciolata? Fieri, abbiamo mostrato le nostre macerie, le macerie del nostro passato, il meglio che possiamo vantare. Eravamo di nuovo Rocky a terra. In un paese che sul piano pubblico e dell’informazione ha mantenuto una continuità con se stesso tutta sul filo del tragico o del ridicolo, esibire un amor patrio convinto e privo di ironia richiede uno sprezzo della retorica e del ridicolo di cui non tutti siamo capaci. O richiederebbe delle vittorie.
Nel gennaio del 2011 la regione australiana del Queensland è stata travolta da una gigantesca alluvione, e in particolare la sua capitale Brisbane. Il Queensland ha un territorio molto esteso con appena quattro milioni e mezzo di abitanti, metà dei quali vivono a Brisbane. Non ha una storia che sia mai arrivata oltre i libri australiani, nessuna tradizione di arte, cultura, orgoglio patrio comparabile con quelle italiane ed europee, nessun ruolo nella geografia politica internazionale. La stragrande maggioranza degli italiani non saprebbe associare una sola cosa al Queensland, né immaginare quale possa essere la cultura di un ueenslander. Ma la mattina in cui Brisbane si è svegliata sotto quasi cinque metri d’acqua, il primo ministro dello Stato del Queensland Anna Bligh ha tenuto una conferenza stampa in diretta sullo stato delle cose, e ha concluso, commossa:
Vi voglio ricordare chi siamo. Siamo Queenslanders.
Qual è il problema con la bandiera italiana? Lo stesso che abbiamo con la parola patria, scricchiolìo a parte: è difficile adeguarsi a quel che di solenne, vuoto e disciplinato ci è stato rifilato per decenni a proposito di patria e bandiera, simboli. La vuota retorica patriottica, che la Repubblica ha cercato di mantenere in vita come se niente fosse dopo l’avvilimento fascista, ha aggiunto ridicolo al vergognoso: il patriottismo e la bandiera, sinonimi di un odioso e grottesco nazionalismo, sono stati riadottati dalle istituzioni democratiche che invece di restituir loro dignità ne hanno peggiorato ulteriormente l’immagine. Da simboli di un fallimento pagliaccio e violento sono diventati simboli di un fallimento sfigato e inetto.
Il crollo delle ideologie pare aver lasciato in vita le simbologie. Che una maglietta del Che, una spilletta berlusconiana o una bandiera tricolore debbano emanare significati più alti che non i comportamenti delle persone, i loro affetti e i loro valori reali, è una stupidaggine. Va bene che predicare bene è importante quanto razzolare, ma cosa predica un alzabandiera? D’Azeglio e Pietro Micca, pace all’anima loro, non sono oggi di esempio più di Thomas Jefferson e Gandhi. Se i giovani italiani – anche quelli che non passano i pomeriggi a fare le vasche sui corsi cittadini – non sentono un particolare trasporto per la bandiera, questo ha anche a che fare con la scarsa attualità dei valori di cui la si vuole portatrice: l’indipendenza? L’orgoglio nazionale? Le conquiste risorgimentali di una classe politica che non permetteva il voto alle donne? O quelle di una monarchia di cui ci vergognammo tanto da pensare una norma costituzionale anticostituzionale per tenere lontani gli eredi? È comprensibile che persino la azzurra bandiera europea e la sua promessa di cosmopolitismo e modernità esercitino maggiori fascinazioni.
C’è soprattutto una differenza saliente, mi sembra, tra come gli americani sentono il rapporto con il loro paese, la sua bandiera, il suo inno, e come lo viviamo noi con i nostri. Gli americani amano la bandiera e l’inno, come notò appunto Oriana Fallaci. Anche i francesi amano La Marsigliese, compresi i ragazzi. Per gli uni e per gli altri quelli sono simboli non tanto – o non solo – dell’indipendenza da un giogo esterno, sollievo anacronistico per i giovani occidentali. Sono invece tuttora simboli di libertà, e di uguaglianza. La rivoluzione francese aveva quelli come motti; e l’indipendenza ha reso gli Stati Uniti il paese delle opportunità e degli uomini liberi, il paese aperto a tutti, il paese che ha combattuto un’ulteriore guerra per l’uguaglianza dei suoi cittadini. C’è forse una forza di questi valori – attuali, vivi, sentiti – che qui è stata tramandata dall’unità d’Italia? Cosa stiamo celebrando, nel 2011? Un traguardo di geografia politica, uno spostamento di confini, sovversioni di dinastie regnanti, o anche qualcos’altro? Qualche anno fa un programma di Radiotre fece parlare diversi ragazzi liceali sulla bandiera e la patria. La maggior parte di loro disse di essere affezionata all’Europa, oltre che all’Italia – ma arrivarono pure risposte come «la sola bandiera è quella della Lazio» – e di aver difficoltà ad appassionarsi a una cosa che le sembrava vecchia: la patria punto (Sandro Pertini, un ragazzo italiano appassionato, ci teneva a chiarire che odiava il nazionalismo e amava la sua patria ma anche le patrie degli altri). Riuscire a commuovere i ragazzi italiani è difficile: il loro paese e i suoi simboli oggi fanno appello alla liberazione dal tiranno austriaco, o al Risorgimento dei Savoia, quelli di Emanuele Filiberto.¹¹ E capirete le difficoltà.
Questo nostro non è «the land of the free». Non è il paese di «liberté, egalité, fraternité». Non resta che costruire altre ragioni per andarne fieri. Riccardo Illy ha scritto¹² che è la qualità della vita il tratto italiano su cui far ricrescere l’economia e la modernizzazione del paese, usandola come attrazione per imprese e innovazioni dal volto umano. Filippo La Porta, in un suo libretto che mette a confronto i sentimenti patri americano e italiano, sostiene che gli italiani non siano in grado di ammodernare se stessi e il repertorio che costituisce la loro identità nazionale: e che da questo repertorio desueto e inutile si possano quindi salvare solo la bellezza e il senso degli italiani per la bellezza, e ripartire da lì. Sarà che mi pare che ne sia rimasto ben poco, di quel senso per la bellezza, e che si tratti in gran parte di impostura. Sarà che non voglio credere che le grandi cose di cui molti italiani sono capaci dentro e fuori dal loro paese debbano invece abbattersi desolate di fronte al supremo impegno di migliorarlo, questo paese. Sarà che la bellezza è fragile… insomma il metodo La Porta non mi convince. E anche il potenziale magnetico della qualità della vita citata da Illy mi sembra indebolito e comunque insufficiente. Più convincente mi pare Antonio Pascale nella sua coraggiosa battaglia13 per una rivalutazione del metodo scientifico per la ricostruzione di una cultura e di una discussione condivise e lontane dalla menzogna permanente in cui siamo immersi: ovvero in sostanza, per un ritorno in auge della verità. «Vasto programma», ma è un programma, che è quello che ci serve. Il paese ha bisogno di vittorie. Sembra una frase ironica. Invece dico sul serio, con sprezzo del ridicolo. Se non di vittorie, almeno di buon gioco. Se non di buon gioco, almeno di vedere che si sta lavorando bene, e poi le vittorie vengono, come dice il mister. L’amorpatrio lo si guadagna. Perché in sostanza è questo che chiedono la stima del proprio paese e la voglia di appendere bandiere. Rivincite, belle figure, primati, cose di cui andar fieri. «Siamo stati bravi.» Per ora ognuno di noi ha le sue e se le tiene strette: una che abbiamo tutti quanti – la sua straordinarietà inattesa rivelata dall’avverbio «suddenly» – è ancora quella formidabile foto di Zoff.
Aggiungo una spiegazione – vedrete che non è irrilevante in questo discorso – sul perché a diciassette anni leggessi «Time», pur vivendo un’adolescenza allegra, ignorante e scriteriata come molte, in una qualsiasi città di provincia italiana all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. E sul perché lo ricevessi in abbonamento personalmente: non è che me lo trovassi in casa, buttato lì da genitori cosmopoliti (sono stato il primo anglofilo in una famiglia di insegnanti con formazioni germaniste o francofone, e il primo in tutta la stirpe a mettere piede negli Stati Uniti). La ragione per cui leggevo «Time» a diciassette anni, a Pisa e tra un calcetto e una birreria, è che mia nonna mi ci aveva abbonato, di sua iniziativa. Mia nonna pensava, cioè, che a un diciassettenne normalmente distratto da calcetto e birreria facesse bene imparare qualcosa del mondo, imparare qualcosa del mondo suo contemporaneo, e imparare a conoscere le lingue di quel mondo. Mia nonna pensava insomma quel che sto cercando di mettere in questo libro:14 che si devono imparare cose dagli altri, che si devono insegnare cose agli altri, e che si deve andare a cambiare il mondo. Adesso ha novantasette anni, e probabilmente in questo momento sta rileggendo Dickens.
1 Ventiquattro anni dopo la Nazionale italiana vinse di nuovo i Mondiali e le immagini di festa furono molto diverse, sia sul campo che al Circo Massimo: con i giocatori – «i gladiatori» – scatenati nell’esibizione di sé, dei propri corpi, del proprio orgoglio, della propria conquista. Era passata una generazione.
2 «È un dato di fatto che negli ultimi anni, i lampi di una coscienza nazionale, il senso di appartenenza a una comunità, siano apparsi raramente, in occasione di una importante manifestazione sportiva o nella contingenza di qualche avvenimento luttuoso» (Walter Barberis, Il bisogno di patria, Einaudi 2004)
3 Di lì a tre anni culminerà una rincorsa che porterà l’Italia a superare il Regno Unito e diventare la quinta potenza economica mondiale, per un decennio (oggi è settima, col Brasile ormai a un passo dal superarla).
4 Lucio Stanca ha poi ricoperto la carica di amministratore delegato dell’Expo di Milano 2015, con uno stipendio annuale di 450.000 euro, e ha rifiutato di lasciare il contemporaneo impegno al parlamento malgrado molte insistenze pubbliche in questo senso e malgrado la sua frequenza alla Camera da quando aveva assunto la gestione dell’Expo si fosse ridotta al 4 per cento delle votazioni. Di fronte a reiterate insistenze dei suoi stessi alleati politici finì per scegliere di lasciare l’Expo a metà dell’opera.
5 Pensate a quanto si sarebbe potuto fare in termini di comunicazione originale e autoironica utilizzando la famiglia del ministro per una campagna a favore del turismo autarchico: «la famiglia Brambilla va al mare», «la famiglia Brambilla va alle terme» eccetera.
6 Probabilmente la palese anomalia di un sito turistico in cui i turisti sono accolti dal capo del governo è saltata agli occhi anche dei suoi gestori, dopo alcuni mesi, e il messaggio e la foto di Berlusconi sono stati successivamente rimossi.
7 Il direttore dell’Agenzia nazionale del Turismo, Eugenio Magnani, alla conferenza stampa di presentazione del Rapporto sul turismo 2009 formulò così la sua idea di una nuova ricerca di identità nazionale: «Credo che con il ministro ci siano tanti progetti, molte idee: la più importante credo che sia quella di rendere consapevoli i giovani italiani di essere parte di questo brand (…), sentirsi fieri di essere parte di questo marchio». Brand, marchio: siamo a cavallo.
8 «Questo è un Paese che da sempre non ha senso dello Stato perché lo Stato gli fa senso. Dai più viene percepito come un padrino insolente cui siamo costretti a versare il pizzo sotto forma di tasse e chiunque riesca a sottrarsi alla corvée è percepito quasi come un eroe. L’idea di appartenere a una comunità più vasta di una casta ci è sconosciuta. L’omertà di massa nasce da qui. Non tanto dalla mancanza di coraggio, ma da una compiaciuta ignoranza del proprio status di cittadini che dovrebbero avere una sola famiglia, lo Stato, e un solo confine, la legge» (Massimo Gramellini, «la Stampa», 26 marzo 2010).
9 Tra gli arditi, Oriana Fallaci. Riporto una parte del suo testo più famoso, quello successivo all’11 settembre 2001, per la bella considerazione sul termine inglese che traduce patria e anche per il resto, che è interessante per quello di cui stiamo parlando: «In inglese la parola Patria non c’è. Per dire Patria bisogna accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother Land, Terra Madre. Native Land,Terra Nativa. O dire semplicemente My Country, il Mio Paese. Però il sostantivo Patriotism c’è. L’aggettivo Patriotic c’è. E a parte la Francia, forse non so immaginare un Paese più patriottico dell’America. Ah! Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè, senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una specie di umiliazione. Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e ruggiscono Italia-Italia io non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi gli ho visto sventolare tante bandiere rosse. Fiumi, laghi, di bandiere rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna. Mal guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e devota all’Unione Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre lasciate agli avversari. E non è che gli avversari ne abbiano fatto buon uso, direi. Non ne hanno fatto nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che vanno alla Messa, idem. Quanto al becero con la camicia verde e la cravatta verde, non sa nemmeno quali siano i colori del tricolore. Mi-sun-lumbard, misun-lumbard. Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra Firenze e Siena. Risultato, oggi la bandiera italiana la vedi soltanto alle Olimpiadi se per caso vinci una medaglia. Peggio: la vedi soltanto negli stadi, quando c’è una partita internazionale di calcio. Unica occasione, peraltro, in cui riesci a udire il grido Italia-Italia. Eh! C’è una bella differenza tra un paese nel quale la bandiera della Patria viene sventolata dai teppisti negli stadi e basta, e un paese nel quale viene sventolata dal popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili operai che scavano nelle rovine per tirar fuori qualche orecchio o qualche naso delle creature massacrate dai figli di Allah» (Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Bur 2009).
10 La più famosa e citata battaglia nel parlare comune è quella in cui perdemmo – Caporetto – così come l’avversario calcistico divenuto modo di dire è quello che ci umiliò: la Corea.
11 Alla vigilia del centocinquantennale dell’Unità d’Italia il paese era piuttosto tiepido nei confronti dell’anniversario. Le celebrazioni devono ringraziare le insofferenze antiberlusconiane e antileghiste che hanno compattato qualche fila in sostegno di una fase storica che ormai interessa solo agli storici o ai nostalgici dei propri vecchi successi scolastici. Quello che ha allargato un po’ di più l’attenzione al tema è stato un film – inevitabilmente – che però gli animi li ha ulteriormente raffreddati, Noi credevamo di Mario Martone. Film che ha il merito – la colpa, per chi esce demoralizzato dalla proiezione – di retrodatare a centocinquanta anni fa tutte le cose peggiori che siamo tentati a pensare dell’Italia di oggi e che vorremmo attribuire a un’emendabile deragliamento temporaneo. E invece quel film ti dice che quelle cose vengono da lontanissimo e che sono l’Italia. Ma tornando alla debolezza della presa del Risorgimento sugli italiani di oggi, Lanfranco Pace ne ha scritto questo, sul «Foglio», riassumendo il repertorio di spiegazioni che si danno al fallimento italiano: «Dicono che è andata così perché siamo un popolo stanco, dominus del mondo per settecento anni, che è tornato ad essere grande a sprazzi, nella fioritura dei comuni, nell’orgogliosa solitudine delle sue città mondo. Dicono che è andata così perché nazione di risulta, arrivata ultima nel consesso quando gli stati nazione in Europa andavano verso l’agonia e quella feroce follia che avrebbe provocato centinaia di milioni di morti. Dicono che è colpa di una casa reale incolta e pavida. Di una dittatura che ha rinnegato la sua vera anima e stravolti i segni e i simboli della Roma antica. Della chiesa più potente che mai, dopo il Concordato. Dicono infine che è colpa di quelli che sono venuti dopo. Della resistenza che nella retorica del compimento ha accentuato le divisioni che c’erano, della destra che non sempre ha messo la patria su tutto, della sinistra che diffidava persino del nome e nella sua utopia della liberazione ha guardato all’est. Della scuola che da tempo non funziona e non trasmette né i valori né la cultura. Del trionfo inevitabile del dio denaro, della globalizzazione. Tutto vero, forse. Ma se fosse esistito un epos del Risorgimento, un limpido momento del mito, avrebbe resistito a tutto. Sarebbe arrivato a noi con forza solare. Non ci avrebbe obbligato ogni volta a frugare nel passato. Non ci terrebbe ancora oggi qui, a farci domande».
12 La rana cinese, Mondadori 2010.
13 Ne ha scritto in Scienza e sentimento (Einaudi 2008) e in Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa? (Laterza 2009).