La discussione sull’“aborto post-natale”
Uno studio su una rivista scientifica britannica contesta le convenzioni sull'inizio della vita e ha provocato le proteste dei siti cattolici in tutto il mondo
Da alcuni giorni si discute molto, soprattutto online ma anche su alcuni giornali (oggi è uscito un severissimo editoriale dell’Avvenire), di un articolo scientifico che sta indignando i siti cattolici in tutto il mondo: l’articolo è una riflessione accademica sul cosiddetto “aborto post-natale”, una definizione (e un ossimoro) usata per indicare la possibilità di equiparare un neonato a un feto, cui potrebbe quindi essere tolta la vita per le stesse ragioni per cui le nostre società contemplano la legittimità dell’aborto. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Medical Ethics ed è stato realizzato da due ricercatori italiani: l’esperto di bioetica e filosofia Alberto Giubilini dell’Università di Milano e la ricercatrice Francesca Minerva del Centre for applied philosophy and public ethics della Università di Melbourne (Australia). Leggendo i commenti, ora interlocutorii ora scandalizzati, circolati fino a ora sull’argomento si ha l’impressione che in molti casi siano stati scritti sulla base dell’abstract (le poche righe introduttive di sintesi accessibili a tutti) dello studio, senza andare a vedere quali siano le argomentazioni per esteso di Giubilini e Minerva (impressione che vale anche per Avvenire, che cita solo la traduzione dell’abstract; altri siti rivendicano di non voler spendere i 32 euro necessari ad acquistare online l’articolo). Abbiamo quindi letto la versione integrale dell’articolo per capire in che termini viene posto il problema e se le indignazioni per l’ipotesi omicida sono fondate.
I due autori iniziano il loro articolo spiegando che di solito particolari anomalie nel feto e i rischi di salute fisica e/o psicologica per la futura madre sono tra le principali cause che portano alla scelta dell’aborto. A volte le due cose sono connesse, «quando per esempio una donna dice che un bambino disabile potrebbe rappresentare un rischio per la propria salute mentale». In alcuni casi le stesse condizioni che avrebbero portato a un aborto si presentano solo dopo la nascita, innescando il dilemma filosofico al centro della riflessione condotta dai due studiosi. Che cercano di valutare una serie di fatti per decidere se gli argomenti che si applicano per uccidere un feto umano possono essere applicati anche per un neonato, discutendo così l’eterno tema dell’inizio della vita.
I casi in cui si verificano condizioni subito dopo la nascita simili a quelle che avrebbero indotto all’aborto sono numerosi, spiegano Giubilini e Minerva. Ci può essere il caso di un neonato che al momento della nascita non riceve ossigeno subendo danni cerebrali irreparabili, oppure quello di altre gravi patologie che non sempre vengono diagnosticate prima della nascita. La sindrome di Treacher Collins, per esempio, si verifica ogni diecimila nascite circa e causa deformità notevoli al viso, che possono mettere in pericolo la vita del neonato se interessano naso e bocca. Chi soffre di questa patologia di solito non ha problemi mentali ed è quindi pienamente consapevole della propria condizione di diversità con tutti i problemi che ne possono derivare. I test genetici, per determinare se vi sia il rischio che il nascituro abbia o meno la sindrome, vengono di solito effettuati solamente se nella famiglia dei genitori si sono verificati casi simili. I test sono inoltre molto costosi e richiedono settimane per i risultati, e anche per questo motivo vengono eseguiti solo in particolari condizioni.
Giubillini e Minerva ricordano anche che ci sono altre malattie più comuni che non vengono sempre diagnosticate prima della nascita. Tra il 2005 e il 2009 in Europa solamente il 64 per cento dei casi di nascituri affetti da sindrome di Down è stato diagnosticato con i test prima della nascita. Questo significa che sono nati circa 1.700 bambini con la sindrome di Down senza che i genitori potessero saperlo prima della nascita. «Dopo la nascita di questi bambini, non c’è alcuna alternativa per i genitori, se non quella di tenere i bambini, che a volte è proprio ciò che probabilmente non avrebbero fatto se la malattia fosse stata diagnosticata prima della nascita».
Il tema dell’eutanasia per i neonati con particolari malformazioni e la prospettiva di una vita che non varrebbe la pena di essere vissuta con dolori insopportabili è stato affrontato, nel corso del tempo, da filosofi, scienziati e da alcuni legislatori. Nei Paesi Bassi, dove queste delicate questioni sono state affrontate con norme incisive, il Protocollo Groningen del 2002 consente di porre fine alla vita di un neonato con prognosi senza speranze, attraverso una decisione assunta dai medici e dai genitori. Ma stabilire criteri condivisi per cui una vita non vale la pena di essere vissuta è praticamente impossibile e, secondo gli autori dello studio, dovrebbe essere un processo che tiene in considerazione non solo le patologie del neonato, ma anche le conseguenze per la vita dei genitori e per la società intera a causa dei maggiori costi sociali.
«Quando si verificano determinate circostanze dopo la nascita che avrebbero giustificato l’aborto, quello che chiamiamo aborto post-natale dovrebbe essere permesso» scrivono Giubilini e Minerva. Spiegano anche che l’espressione è preferibile a quella di infanticidio, perché evidenzia il fatto che lo stato morale dell’individuo che viene ucciso è del tutto comparabile a quello del feto più che a quello di bambino. Di conseguenza, l’uccisione di un neonato potrebbe essere eticamente ammissibile in tutte quelle condizioni in cui lo sarebbe l’aborto.
Uguaglianza morale tra neonato e feto
Secondo Giubilini e Minerva, lo stato morale di un neonato è equiparabile a quello di un feto «nel senso che entrambi mancano di quelle proprietà che giustificano l’attribuzione di un diritto a vivere dell’individuo». Sono naturalmente entrambi esseri umani e delle persone in potenza, ma nessuno dei due è strettamente una “persona” nel senso di essere il “soggetto di un diritto morale a vivere”. Una persona è un individuo in grado di attribuire alla sua esistenza almeno un valore di base: la consapevolezza che essere privati dell’esistenza rappresenta una perdita per se stessi. Ne consegue che gli individui che non sono nelle condizioni di attribuire nessun valore alla loro stessa esistenza non sono persone. Non è quindi sufficiente essere un essere umano per ottenere l’inalienabile il diritto a vivere, secondo gli autori. Opinione accettata, dicono, nei paesi dove non sono considerati i soggetti di un diritto a vivere gli embrioni per le ricerche sulle cellule staminali o i criminali dove è prevista la pena di morte.
Inoltre, per un soggetto una condizione necessaria per avere un diritto a qualcosa è che questo sia danneggiato qualora venga deciso che sia privato di quel qualcosa. Un soggetto deve però essere nella condizione di valutare come sarebbe stata la propria condizione se non fosse stato danneggiato. E questa consapevolezza dipende dal livello del suo sviluppo mentale, cosa che determina quindi se si tratta o meno di una “persona”.
Un neonato inizia ad avere aspettative consapevoli e a sviluppare un minimo di consapevolezza di sé molto presto, ma non nei primi giorni o settimane dopo la nascita. Ambizioni e piani sono invece ben chiari a quelle persone, a partire dai genitori, che avrebbero potuto decidere di interrompere la gravidanza. E secondo gli autori, «i diritti e gli interessi delle persone coinvolte dovrebbero essere quindi tenuti in considerazione più del resto per quanto riguarda l’aborto o l’aborto post-natale».
Feto e neonato sono potenziali persone
Feto e neonato non sono persone, ma hanno la potenzialità di diventarlo grazie ai meccanismi biologici che li porteranno a crescere e svilupparsi. Quando avranno raggiunto questo stadio saranno in grado di avere ambizioni e di rendersi conto della loro stessa vita. Tenuto conto delle precedenti sdefinizioni di persona, spiegano Giubilini e Minerva, affinché ci sia un danno è necessario che qualcuno sia nella condizione di avere consapevolezza di quel danno. Se una persona in potenza, come un feto o un neonato, non diventa una persona vera e propria, allora non c’è e non ci sarà nemmeno una persona futura che può essere danneggiata, dunque non c’è danno alcuno. In pratica, secondo questa impostazione, se i tuoi genitori avessero deciso di abortire quando eri un feto o un neonato, non ti avrebbero danneggiato perché avrebbero danneggiato qualcuno che non esisteva ancora, quindi nessuno. Il tema della “persona in potenza” sarebbe quindi enormemente sopravvalutato, assumendo spesso più importanza delle ragioni dei genitori.
L’adozione è un’alternativa
Giubilini e Minerva spiegano che una possibile obiezione al loro studio potrebbe essere: invece di scegliere per un aborto post-natale, i genitori non potrebbero semplicemente dare in adozione il figlio che non vogliono? Ma questa domanda trascura interessi e conseguenze più grandi che riguardano le persone coinvolte nella scelta. Una madre, per esempio, potrebbe subire grandi danni psicologici nel dare il proprio figlio in adozione (in merito ci sono diverse ricerche scientifiche). Il lutto e il senso di perdita possono accompagnare sia l’aborto che l’aborto post-natale così come la scelta di dare in adozione il proprio figlio, e non è detto che l’ultima opzione sia la meno traumatica per la madre biologica. La morte è una condizione definitiva, quella dell’adozione appare per alcune madri meno definitiva e mantiene la speranza, spesso inconscia, che ci possa essere un ritorno, cosa che rende più difficile accettare fino in fondo la separazione. Nello studio si ricorda comunque che quelle proposte non sono motivazioni definitive contro l’adozione come una valida alternativa all’aborto post-natale, ma molto dipende dalle singole circostanze: l’importante è che gli interessi delle persone effettive prevalgano.
Giubilini e Minerva concludono il loro articolo scientifico aggiungendo che, se condizioni come i costi (sociali, psicologici ed economici) per i potenziali genitori sono motivi accettati oggi per optare per l’aborto anche quando il feto è sano, allora gli stessi motivi dovrebbero giustificare l’uccisione del neonato, posto che lo stato morale sia lo stesso. Una tale impostazione lascia aperte molte implicazioni difficili da risolvere, ed evidenzia la fragilità delle convenzioni legali su quale debba essere il periodo massimo consentito in cui il neonato può essere ucciso. Lo studio non suggerisce un arco di tempo preciso, ma ricorda che per diagnosticare particolari anomalie bastano pochi giorni dopo la nascita. Nel caso di un aborto post-natale di un neonato sano non indicano una soglia, poiché dipenderebbe dalla valutazione su ogni caso specifico sullo sviluppo psicologico e neuronale del neonato.
Tuttavia, se una malattia non è stata identificata durante la gravidanza, se qualcosa è andato storto durante il parto, o se cambiamenti economici, sociali o psicologici rendono il prendersi carico del neonato un impegno insostenibile, allora le persone dovrebbero avere la possibilità di non essere forzate a fare qualcosa che non si possono permettere.
Aggiornamento: il direttore della rivista ha risposto alle violente critiche che l’articolo ha ricevuto.