L’euro, il mondo e “Barry”
Un capitolo del libro di Elido Fazi sulla sua vita e sulla "terza guerra mondiale", che inaugura la collana di ebook (a un euro) della sua casa editrice
La casa editrice Fazi Editore ha inaugurato una nuova collana di libri digitali: si chiama “One Euro“, gli ebook sono scaricabili appunto al costo di un euro, in italiano e in inglese, e sono scritti da economisti, esperti di politica, relazioni internazionali e finanza. L’obiettivo della collana è fornire ai lettore gli strumenti per comprendere le relazioni internazionali contemporanee e la crisi finanziaria, economica e politica.
Il primo libro di “One Euro” è scritto dal fondatore della casa editrice Elido Fazi e si intitola La terza guerra mondiale? La verità sulle banche, Monti e l’euro. Il libro analizza le cause dell’attuale crisi economica globale mescolandole a parti del racconto autobiografico dell’autore, con una scrittura molto efficace e chiara: e spiegando anche le economie in crescita della Cina e dell’India. Fazi ha 60 anni, si è laureato in Economia alla Sapienza di Roma, ha lavorato come manager dell’Economist Group e nel 1994 ha fondato la casa editrice. Oltre all’editore e all’economista fa anche il traduttore e lo scrittore.
Questo è l’ottavo capitolo del libro, in cui Fazi racconta la nascita dell’euro e un momento della sua vita professionale, quando diventò vicepresidente per i paesi mediterranei di Business International (e conobbe Barack Obama quando era ancora “Barry”)
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Durante gli anni Ottanta gli Stati Uniti forzarono la mano agli alleati per favorire ulteriormente l’ingresso in patria di capitali internazionali in un’ottica iperliberista. Nel 1984, Reagan abolì la deduzione alla fonte per gli interessi e i dividendi pagati ai possessori stranieri di asset americani (la cosiddetta Withholding Tax) per incoraggiare gli investitori internazionali a finanziare gli enormi deficit statunitensi.
Passai l’estate di quell’anno a New York. Lavoravo per una società americana, Business International, che sarebbe stata acquisita un paio di anni dopo, nel 1986, dall’«Economist» di Londra, ma non mi trovavo a New York per lavoro.
A maggio del 1984, io e Kathy, la mia prima moglie, eravamo in crisi e lei si era trasferita con mio figlio Tom, di due anni, a Londra, suo luogo di nascita.
A Londra, dove avevamo abitato per cinque anni, dopo i due passati a Manchester, io e Kathy avevamo frequentato un giornalista americano, Eric Berg, e la sua ragazza Joan, ambedue ebrei. Eravamo rimasti in contatto anche dopo il nostro ritorno in Italia e il loro trasferimento negli Stati Uniti. Ci sentivamo spesso per telefono. Rimasero sorpresi quando raccontai loro che tra me e Kathy era finita. Erano convinti che fossimo una coppia solida. Forse da qualche meandro remoto del loro immaginario, oppure solo così, per caso, partorirono un’idea. Ci invitarono a passare l’estate da loro, a New York. Io e Kathy non ci eravamo più sentiti, neanche una telefonata. Combinarono tutto loro.
Atterrai a New York il primo d’agosto. Kathy era già là da qualche giorno. Sia Eric che Joan lavoravano al «New York Times», lui all’economia, lei all’inserto culturale, «The New York Times Book Review» o «The New York Times Review of Books», non ricordo mai bene quale sia il nome giusto. Abitavano in una traversa della Columbus Avenue, non lontano dal Lincoln Center, che si poteva raggiungere facilmente a piedi. L’appartamento era piccolo, faceva caldo, l’umidità era insopportabile nonostante l’aria condizionata.
L’evento sociale più importante che Eric e Joan organizzarono per noi fu un barbecue su un terrazzino comune, dieci metri quadrati con vista su un cortiletto, scale antincendio di ferro attaccate ai muri, con pochi loro conoscenti. Il mio amico cantò le lodi della vista superba, e io con lui. Facevo sempre così allora con gli amici americani. L’headquarter di Business International, in un grattacielo a Das Hammerskjöld Plaza, non era lontano da dove ci stavano festeggiando. Anche se molte cose mi sembravano spesso così così, non contestavo mai che fossero wonderful, se erano loro a dirlo per primi.
Un giorno andai a salutare i miei colleghi alla centrale. Alcuni di loro li conoscevo personalmente, altri solo per telefono. Nei mesi precedenti avevo parlato spesso con l’editor di una pubblicazione dal noioso titolo «Financing Foreign Operations», Effeeffeo, FFO, rapporto sull’economia dell’Italia, simile per struttura a quello di altri sessanta paesi, i più importanti nel mondo. L’Italia era tra questi, uno dei più sviluppati, la quinta o sesta potenza economica globale. I rapporti venivano aggiornati quattro volte l’anno e venduti solo per abbonamento (e a caro prezzo) a qualche migliaio di multinazionali – non soltanto americane e inglesi, ma anche italiane – che avevano interesse a investire all’estero. I clienti in Italia erano pochi, FIAT, Olivetti, ENI e pochi altri. Mi ero appassionato di tutte quelle belle cose dell’economia e della finanza.
Io avevo appena finito di aggiornare il rapporto italiano. Un capitoletto sulla politica, uno sull’economia, uno sulle politiche economiche, uno sulle politiche fiscali, uno sulla politica creditizia, uno sul mercato del lavoro, e così via, sinossi algebricamente identiche per tutti i sessanta paesi. Non c’era molto spazio per la creatività, però si imparavano un sacco di cose. Sembrava un lavoretto facile facile, e per me lo era, ma comunque ci volevano sempre giorni e giorni alla scrivania. E, nell’aggiornamento dei dati, bisognava essere seri.
Una volta finito, l’avevo inviato all’editor americano. Poiché l’Effeeffeo non era l’unico rapporto che dovevo scrivere, conoscevo diversi editor, sia a Londra che a New York. Alcuni erano pignoli e facevano perdere una marea di tempo con i dettagli, altri si davano un sacco di arie con quelli come me, non di madrelingua – anche se eravamo in tanti –, che spesso facevano errori banali di scrittura.
Quell’anno, l’editor dell’Effeeffeo era Barry, uno rilassato. Avevamo scambiato poche telefonate. In una settimana consegnò la versione definitiva con il “visto si stampi”. Con un altro editor, ci sarebbero volute due o tre settimane.
Pensavo che Barry avesse cinquant’anni, invece scoprii che era giovanissimo e di colore, laureato da pochi mesi in Scienze Politiche. Pensavo che gli editor dovessero essere più vecchi e più esperti di finanza.
Il primo a spargere la voce, qualche anno fa, fu Sean, un ragazzo irlandese a cui avevo fatto da testimone quando aveva sposato una gallese nella città di Bath, e che nel 1983 era anche lui un editor.
«Ti ricordi di Barry, quello che faceva l’FFO?». «Appena appena».
«Sai chi era?».
«No!».
«Indovina?».
«E dimmelo, cavolo».
«Barack Obama!».
«Nooooooo, non ci credo».
«Va su Internet, clicca Business International, Ba
rack Obama».
Una sera portai Kathy in uno dei più costosi ristoranti di Manhattan. Quell’estate c’era stata la crisi della lira e il dollaro era schizzato a 2000. Nonostante questo, volevo convincerla che l’Italia in quegli anni era diventata uno dei paesi più ricchi del mondo. «Pensa che, nonostante il cambio sfavorevole, anche due come noi si possono permettere di fare gli americani», le dissi. «Anche se il PIL non va preso troppo sul serio, e poi per l’Italia il PIL ufficiale è solo una parte di quello vero, nessuno sa quanto sia grande la nostra economia “sommersa”. Insomma, anche se il PIL potrebbe ingannare – solo gli uomini politici, che non sanno spesso neanche cosa sia, fanno finta di accapigliarcisi sopra se cresce del 4 o del 5 per cento –, qualcosa i dati devono pur significare: il PIL italiano, considerando solo quello ufficiale, è superiore a quello della Cina e dell’India messi insieme. E loro sono miliardi. Noi milioni».
Ma a Kathy non interessavano molto gli argomenti economici. Sapeva bene che ero spesso sbilanciato verso il lato sinistro del cervello. Aspettava i rari momenti in cui anche il lato destro cominciava a funzionare.
Facemmo tutto quello che c’era da fare a New York. Salimmo sulle Twin Towers e visitammo la Statua della Libertà. Al MOMA incrociammo una scolaresca. Capivo bene quello che dicevano quei ragazzini, e non li invidiai. Una guida li stava infarcendo di sciocchezze, sproloquiando sulla bellezza.
Ci stancavamo facilmente in mezzo al traffico. Faceva troppo caldo, sembrava di camminare in una sauna, con i fumi dell’aria condizionata che sbuffavano da sotto ogni marciapiede. Verso metà agosto decidemmo di affittare un vecchio catorcio degli anni Cinquanta da un’agenzia che si chiamava appunto «Rent-a-Wreck». Ce l’aveva segnalata Eric. La macchina era pericolosissima da guidare, ma noi facevamo solo viaggi brevi, spesso al mare dalle parti di Long Island. Anche se le spiagge non erano molto diverse da quelle di Fregene, lì finalmente, tra un cocktail e l’altro – questi a me fanno sempre bene – cominciammo a parlare. Ma nessuno di noi due si sbilanciò né per un verso né per l’altro.
Il risultato della vacanza fu esattamente quello che probabilmente avevano auspicato i nostri amici americani, quando l’idea era spuntata nel cervello di uno dei due. Al nostro ritorno, io a Roma, lei a Londra, io e Kathy cominciammo a sentirci spesso. A settembre del 1985 nacque Jamie, secondo figlio.
Il primo era nato a Londra nel maggio del 1982, in una bella giornata senza una nuvola, nell’ospedale di Saint Bartholomew nella City, uno dei più antichi di Londra, più o meno alle otto di mattina. Lo registrammo all’anagrafe di Londra come Thomas Carlo John Paul Ronan Fazi perché quel giorno Giovanni Paolo II era in visita a Londra, ma noi l’abbiamo sempre chiamato Tom. L’ospedale era a due passi dal Barbican dove io e Kathy avevamo abitato per anni. La sera prima avevo fatto tardi. A gennaio di quell’anno ero stato trasferito da Londra a Roma, ma avevo ancora tanti amici in quella città, ed eravamo andati a bere a Covent Garden. Come potevo immaginare che Tom sarebbe nato il giorno dopo? Non sapevamo neanche se sarebbe stato un maschietto o una femmina.
Lo battezzammo una settimana dopo in una vecchia chiesetta cattolica della City e facemmo una festa a casa della sorella di Kathy, Francesca, che si era sposata qualche anno prima con un avvocato inglese, John. Avevano comprato da poco una casa in un quartiere dell’East End, che da lì a qualche anno sarebbe diventato un posto chic, a fianco di quella di Tony Blair. Francesca era l’amica del cuore di Cherie, la moglie di Tony.
Nel 1986, il mio capo a Roma, a causa di una lunga e snervante guerra di posizione con un suo collega, fu costretto a dare le dimissioni. In mancanza di meglio, si rivolsero a me appioppandomi un pomposo titolo che non significava niente. Ero un generale senza soldati, ma lo stipendio per fortuna era cresciuto.
Da Roma, nonostante le centinaia di telefonate tra colleghi, da Hong Kong a Rio de Janeiro, non si capiva cosa stesse succedendo nella sede centrale di New York. Giravano decine di rumours.
Tutto ci fu chiaro quando, un giorno, ci comunicarono che la società aveva cambiato padrone, gli azionisti di maggioranza non erano più gli americani, ma gli inglesi dell’«Economist». Passati tutti i test (memorabile quello sulle rive di un lago, non lontano da Ginevra, presente tutto il top management dell’«Economist», in cui molti colleghi persero il posto), gli inglesi mi concessero una posizione che, almeno sulla carta, sembrava importante, Vice President for Southern Europe, cioè responsabile per Italia, Spagna, Grecia e Portogallo.
Ma, al di là del titolone, non contavo nulla. Una o due volte al mese dovevo passare presso l’ufficio spagnolo, essendo il responsabile legale anche di quella sede. Una giornata la passavo a firmare carte, presso avvocati e notai, scoprendo così che, per quanto allora si parlasse tanto bene della Spagna, la burocrazia non era molto diversa dalla nostra. Firmavo, senza capire bene cosa. Di norma, un altro giorno lo passavo ad ascoltare le chiacchiere dei miei colleghi spagnoli, due giovanotti di belle speranze. Partecipava anche la segretaria.
Ogni tanto andavo anche in Grecia e Portogallo. Secondo gli inglesi c’era poco da fidarsi dei greci. E volevano che controllassi per bene i conti. Lo sapevo anch’io che le cose in Grecia non andavano tanto bene. Ma non era facile fare i controlli con il nostro referente ateniese. Mi mandava sempre a prendere con una Mercedes con autista, il mio nome scritto in grande si vedeva subito, proprio fuori dall’aeroporto di Atene. Esattamente le spese che io avrei dovuto tagliare.
Poiché arrivavo sempre tardi nel pomeriggio, l’autista mi portava direttamente a casa del mio collega. Le cene erano zeppe di notabili locali e internazionali, l’ambasciatore americano e la moglie c’erano sempre. E così il giorno dopo non avevo mai il coraggio di affrontare le questioni spinose. A parte le spese eccessive, però, il mio amico greco era un tipo formidabile: conosceva tutti ad Atene, sia del clan dei Papandreou che di quello dei Karamanlis, che da decenni si alternavano al potere. Il paese che amavo di più era il Portogallo. Lisbona negli anni Ottanta sembrava una città degli anni Trenta. E i portoghesi ci tenevano all’ospitalità. Preferivano ristoranti sull’oceano, appena fuori Lisbona, con viste mozzafiato.
Scusate l’interruzione personale. Riprendo subito con la storia del dollaro. E, a questo punto, anche dell’euro. L’introduzione della nuova valuta, prima come moneta virtuale e poi, nel 2002, come banconota, è certamente l’evento più importante verificatosi sulla scena valutaria mondiale dopo la fine di Bretton Woods.
In realtà, il processo politico che condusse alla creazione dell’euro ha radici ben più lontane. Ancor prima del collasso dell’accordo di Bretton Woods, nel 1971, quando già cominciavano a udirsi i primi scricchiolii del sistema monetario internazionale, il primo ministro del Lussemburgo Pierre Werner aveva convocato una conferenza europea, precisamente nel 1969, sollevando l’opportunità di dare vita a quella che poi fu chiamata Unione Monetaria ed Economica Europea. Successivamente, nel 1979, da un’iniziativa di Francia e Germania nacque il Sistema Monetario Europeo, che ebbe l’effetto di stabilizzare i cambi delle principali valute del Vecchio Continente, seguito dalla creazione dell’ECU (European Currency Unit), una valuta virtuale. Un processo che si arricchì nei decenni successivi, fino a culminare nel Trattato di Maastricht, firmato nel febbraio del 1992, tre anni dopo la caduta inaspettata del muro di Berlino.
Il cancelliere Kohl, al tempo, impose che il cambio del marco orientale fosse elevato al livello di quello occidentale. I calcoli degli economisti dicevano invece che il marco orientale valeva al massimo il 25 per cento di quello occidentale. Molti, inclusa la Bundesbank, sostenevano che una politica di parità avrebbe portato alla rovina e alla distruzione della competitività dei Länder annessi nel 1991. Il governatore della Bundesbank, Pohl, che era contrario al cambio 1:1, rassegnò le dimissioni. Il cancelliere, al contrario, voleva mettere potere d’acquisto nelle mani dei cittadini della Germania orientale per far loro comprare auto nuove – le Trabant facevano schifo –, frigoriferi, televisori, tutte quelle belle cose che si potevano acquistare facilmente a Berlino Ovest.
Io feci appena in tempo a visitare la vecchia Berlino Est. Avevo appena conosciuto una ragazza tedesca mentre visitavo l’Acropoli ad Atene, ed ero passato a salutarla a Berlino. Una domenica decisi di attraversare il Checkpoint Charlie e passammo un pomeriggio a Berlino Est. Sembrava l’Italia degli anni Cinquanta. Poche macchine, molte biciclette. E nei pub si danzava di pomeriggio, come ad Ascoli Piceno negli anni Sessanta.
La Bundesbank, che non è mai stata un’aquila, l’euro non lo voleva e cercò di sollevare l’opinione pubblica contro la sua introduzione. Ma l’euro fu il prezzo preteso dai francesi per avallare la riunificazione e tenere attaccata la Germania all’Europa, frenando le ambiziose avventure e i sogni da grande potenza tipici dei tedeschi. Il Trattato di Maastricht fu firmato nel 1992.
Nel 1988 riuscii a organizzare la prima tavola rotonda con il governo italiano, una conferenza di tre giorni tra tutti i ministri e un centinaio di investitori esteri in un albergo che allora si chiamava ancora Grand Hotel. Andai a parlarne direttamente con Giovanni Goria, un ragioniere della Camera di Commercio di Asti che era diventato fortunosamente il più giovane primo ministro della storia italiana. Quando ci incontrammo nel suo piccolo studio a Palazzo Chigi mi fece un’ottima impressione. L’unica cosa che non mi piace, mi dissi, è la pancetta (simile alla mia di adesso). Se io alla sua età fossi primo ministro mi metterei a dieta, pensai. Non feci fatica a incantarlo. Nonostante fosse stato per anni ministro del Tesoro nel governo Craxi, non gli era facile capire i grandi temi internazionali. Il nostro, all’epoca, era ancora un paese attraente per gli investitori stranieri, se non per l’efficienza della sua economia, di certo per la dimensione dei suoi consumi. L’idea della tavola rotonda gli piacque così tanto che accettò lui stesso di estendere l’invito ai ministri. Vennero tutti, davanti agli occhi esterrefatti dei dirigenti dell’«Economist» che assistevano per la prima volta a un evento del genere. L’idea (non originale, perché era la riesumazione di un vecchio prodotto della Business International) convinse così a fondo gli inglesi che mi autorizzarono a replicarla in Spagna, Grecia e Portogallo. Ancora oggi, l’«Economist» continua a organizzare tavole rotonde con i governi di mezzo mondo.
Alfredo Ambrosetti, che aveva da qualche anno iniziato a organizzare gli incontri di Cernobbio, pensò di aver trovato un concorrente pericoloso e mi offrì uno stipendio d’oro per passare a lavorare con lui. Dopo averci pensato qualche settimana – ricordo che ci incontrammo in un albergo di via Veneto e tutti e due commentammo la presenza di Licio Gelli nella hall che tranquillamente conversava con alcuni amici – rifiutai. Ci riprovò con un’offerta ancora più alta l’anno seguente. Cominciai a pensarci seriamente. Accompagnai Alfredo a un seminario che si tenne a Villa Bellosguardo a Firenze, lo teneva direttamente lui davanti a un centinaio di amministratori delegati. Non mi convinse e decisi di rifiutare anche la seconda offerta. Anche perché non mi era andata giù l’idea di Alfredo di farmi analizzare da uno psicanalista di Varese.
L’euro nacque dapprima sui mercati finanziari, nel 1999, quando undici paesi europei presero di comune accordo una decisione. Stabilirono irrevocabilmente un tasso di conversione fisso fra le proprie valute nazionali, dando vita a un’unica moneta che avrebbe avuto corso legale per ognuno di essi, sostituendo quelle correnti. E nel gennaio del 2002 l’euro si materializzò anche nelle tasche dei cittadini, acquisendo corso legale in Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna.