Che cos’è il “credit crunch”
E perché può strozzare la ripresa economica in Italia più che in altri paesi, come accadde negli anni Novanta ai paesi dell'Europa del Nord
Raoul Minetti, docente di materie economiche all’università del Michigan, spiega oggi sul sito di ItaliaFutura perché il principale pericolo per la ripresa economica è il credit crunch, cioè la contrazione dell’offerta di denaro in prestito da parte delle banche. Ci sono dei precedenti storici in materia, e non sono confortanti.
Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ne ha parlato nel suo primo discorso al convegno Assiom-Forex; il Sole 24 Ore gli ha dedicato un preoccupato speciale di più di quattro pagine nei giorni scorsi. Uno spettro si aggira per l’economia italiana. Il suo nome, credit crunch (“stretta del credito”) è rimasto per lo più ignoto al grande pubblico fino a questa crisi, ma è una vecchia conoscenza degli economisti.
Il credit crunch è generalmente definito come una contrazione dell’offerta di credito indotta da una caduta della patrimonializzazione delle banche (“capital crunch”), da riduzioni nella liquidità del sistema bancario, o talvolta da una più marcata avversione al rischio delle banche nel concedere prestiti.
Il credit crunch e la quantità di credito: cosa insegna la storia economica
Gli ultimi vent’anni forniscono lezioni importanti sulle conseguenze drammatiche che un credit crunch può avere sull’economia. In questi giorni si tende talvolta a delineare un parallelo tra il credit crunch che sta interessando l’economia italiana (a dicembre 2011 un calo del 2.3% nei prestiti erogati alle imprese) e quello che ha investito gli Stati Uniti già a partire dal 2008.Tuttavia non è questo probabilmente il parallelo più appropriato per comprendere le possibili conseguenze di un credit crunch nel nostro paese. Gli Stati Uniti sono infatti caratterizzati da un sistema finanziario assai più variegato dell’Italia.
Anche se negli USA la crisi finanziaria ha interessato in maniera pervasiva vari segmenti del sistema finanziario, un’impresa USA che si veda negare un prestito dalla sua banca di fiducia ha generalmente accesso ad una gamma di modalità di finanziamento più ampia di quella di un’impresa italiana.
In Italia, il sistema industriale è caratterizzato da imprese in media più piccole che negli Stati Uniti e molte imprese contano quasi esclusivamente sulla propria banca locale o su quella della provincia vicina per ottenere finanziamenti.
Poche imprese italiane sono quotate in Borsa ed emissioni di obbligazioni societarie sono effettuate solo da imprese grandi. Inoltre la gamma di istituzioni finanziarie alternative alle banche è sensibilmente più limitata che negli USA.
Il parallelo più calzante con il credit crunch italiano è invece probabilmente rappresentato dal credit crunch che investì i paesi del Nord Europa durante la loro crisi finanziaria dei primi anni ’90. Anche in quel caso si trattava di sistemi finanziari fortemente “bancarizzati”, con limitate alternative per le piccole e medie imprese svedesi, finlandesi e norvegesi rispetto ai prestiti negati dalle banche locali.
Ebbene, gli effetti del credit crunch furono impressionanti. Alcuni studi empirici della Banca di Finlandia trovano ad esempio che in Finlandia il credit crunch causò una contrazione del volume di investimento delle imprese tra il 10 e il 15% tra il 1990 e il 19931.
Paradossalmente, quello che è stato presentato all’inizio della crisi nel 2008 come un vantaggio del sistema finanziario italiano – il suo essere un sistema tradizionale, diceva Tremonti, tutto imperniato su banche focalizzate su attività standard e quindi assai diverso dal sistema finanziario americano caratterizzato da una miriade di istituzioni finanziarie non tradizionali – può rappresentare il suo svantaggio in questa fase di credit crunch.
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foto: PEDRO ARMESTRE/AFP/Getty Images