Una polizza assicurativa per Internet

La proposta di Evgeny Morozov sul Corriere della Sera per risarcire chi subisce violazioni della privacy e danni causati dalla diffusione di informazioni riservate

WASHINGTON, DC - JANUARY 19: Reporters use laptop computers, iPads and ink and paper to take notes during a panel discussion organized by NetCoalition about the Protection IP Act (PIPA) and the Stop Online Privacy Act (SOPA) at the U.S. Capitol January 19, 2012 in Washington, DC. Opposed to SOPA and PIPA in their current forms, NetCoalition is a lobying group representing Internet and technology companies, including Google, Yahoo!, Amazon.com, eBay, IAC, Bloomberg LP, Expedia and Wikipedia. (Photo by Chip Somodevilla/Getty Images)
WASHINGTON, DC - JANUARY 19: Reporters use laptop computers, iPads and ink and paper to take notes during a panel discussion organized by NetCoalition about the Protection IP Act (PIPA) and the Stop Online Privacy Act (SOPA) at the U.S. Capitol January 19, 2012 in Washington, DC. Opposed to SOPA and PIPA in their current forms, NetCoalition is a lobying group representing Internet and technology companies, including Google, Yahoo!, Amazon.com, eBay, IAC, Bloomberg LP, Expedia and Wikipedia. (Photo by Chip Somodevilla/Getty Images)

Evgeny Morozov è uno scrittore e giornalista bielorusso famoso per essere un esperto e un attento osservatore di cose di Internet, famoso soprattutto per le sue tesi – in qualche modo “controcorrente” – riguardo come non sia scontato che la Rete possa essere uno strumento di emancipazione sociale e liberazione, e come i governi e le grandi aziende possano usare a loro vantaggio – e a svantaggio dei cittadini – le sue potenzialità. Oggi Morozov firma sul Corriere della Sera un articolo che discute di come risarcire e compensare i danni di chi subisce una violazione della propria privacy o la diffusione irregolare dei suoi dati personali, e fa quindi una proposta originale, forse un po’ spericolata, ma su cui vale la pena discutere: una polizza assicurativa, piccola, obbligatoria e per tutti.

Il grande paradosso di Internet, oggi, è che nonostante le aziende in Internet aspirino a mettere ordine in quel che facciamo online e a come lo facciamo, il Web appare più fuori controllo che mai.

Prendiamo ad esempio Facebook: recentemente si è visto che deteneva ancora foto che gli utenti avevano chiesto di cancellare tre anni fa. Oppure Anonymous, che continua a far circolare informazioni private di cittadini incolpevoli per perseguire obiettivi politici di ordine generale. O ancora Path, un popolare social network per la condivisione di foto, che memorizzava segretamente nei suoi server i numeri dei telefoni cellulari contattati dai suoi utenti. Se Anonymous avesse attaccato i server di Path, le rubriche dei suoi due milioni di utenti sarebbero diventate di dominio pubblico. Il possibile danno riguarderebbe in questo caso non solo la privacy degli utenti di Path, ma anche la loro reputazione. Chissà quanti numeri imbarazzanti vengono salvati nelle rubriche. Analogamente, quando nel 2010 Google lanciò il suo disastroso servizio Google Buzz, rese pubblici i nomi dei contatti email più frequenti dei suoi utenti – un gesto assai poco adatto a salvaguardare la reputazione della gente.

Cosa fare, allora? Una soluzione potrebbe essere quella di rendere il Web un luogo meno anonimo, in modo che sia possibile rintracciare e punire chi si comporta come Anonymous. Un’altra sarebbe quella di considerare inevitabili questi incidenti e cercare di gestire attivamente la propria reputazione online. Un gran numero di start-up sta già pubblicizzando sistemi capaci di sopprimere le informazioni dannose, o almeno di spostarle da pagina 1 a pagina 10 dei risultati di ricerca. Dato che questo può costare migliaia di dollari, è una opzione riservata soprattutto ai ricchi.

Una terza soluzione, più allettante, è quella di promuovere il cosiddetto «diritto a essere dimenticati» – un diritto così ambiguo, che spesso anche i suoi sostenitori non riescono a dire in cosa consista. Nella sua forma più contenuta, «il diritto a essere dimenticati» è una questione di buon senso: gli utenti dovrebbero avere la possibilità di cancellare qualsiasi informazione carichino su servizi online. Nella sua forma più estesa – permettere agli utenti di eliminare le informazioni su se stessi da qualsiasi sito o da motori di ricerca – «il diritto a essere dimenticati» è troppo drastico e poco realistico.

Anche se applicato, «il diritto a essere dimenticati» non potrà far molto per contrastare il prossimo Google Buzz o Path, per non parlare di Anonymous. Potrebbe limitare la diffusione di informazioni esposte inavvertitamente, ma ridurne la quantità non consolerebbe quegli utenti la cui reputazione è danneggiata anche da una sola pubblicazione. A volte basta a danneggiarci che amici, parenti o partner commerciali diano solo una rapida occhiata a notizie compromettenti. «Il diritto a essere dimenticati» potrebbe eliminare queste informazioni da Internet – ma non dalla nostra mente.

(continua a leggere sul sito del Corriere della Sera)

foto: Chip Somodevilla/Getty Images