C’è molto meno petrolio di quanto crediamo
E ci costa sempre di più: in Italia spendiamo 55 miliardi di dollari all'anno per averlo, 13 anni fa spendevamo 43 miliardi in meno
Nonostante le importazioni siano diminuite di 388mila barili al giorno rispetto al 1999, in Italia spendiamo mediamente 55 miliardi di dollari ogni anno per importare petrolio, 43 miliardi in più di spesa rispetto a 13 anni fa e le cose non vanno meglio per molti altri paesi del mondo. Come spiegano i ricercatori James Murray e David King sulla rivista scientifica Nature, l’offerta di petrolio non riuscirà nei prossimi anni a sostenere la crescita della domanda. Le stime sulle disponibilità dei nuovi pozzi non sono affidabili e le compagnie petrolifere tendono a dare dati fuorvianti o poco precisi, per gestire con più efficacia i prezzi. La produzione dei campi petroliferi sta diminuendo in tutto il mondo a un tasso compreso tra il 4,5 e il 6,7 per cento. La scarsità della risorsa, spiegano i ricercatori, diventerà probabilmente l’incentivo principale per la ricerca di altre fonti di energia e avrà un peso maggiore rispetto alle preoccupazioni per l’ambiente. L’articolo di Nature è stato tradotto anche da Internazionale la settimana scorsa.
In molte parti del mondo, e in particolare negli Stati Uniti, un insistente dibattito sulla qualità della scienza del cambiamento climatico e i dubbi sulle dimensioni degli impatti ambientali negativi hanno fatto da remora alle scelte politiche di riduzione della crescita delle emissioni di gas-serra. Ma può esserci una ragione più persuasiva per abbassare le emissioni globali: l’impatto del calo dell’offerta petrolifera sull’economia.
La produzione di combustibili fossili di cui possiamo disporre è minore di quanto molti credano. A partire dal 2005, la produzione convenzionale di petrolio greggio non è cresciuta di pari passo con la crescita della domanda. Noi sosteniamo che il mercato del petrolio è passato a un nuovo e diverso stato, in una di quelle che in fisica si chiamano transizioni di fase: oggi la produzione è «anelastica», incapace cioè di seguire la crescita della domanda, e questo spinge i prezzi a oscillare in modo selvaggio. Le risorse degli altri combustibili fossili non sembrano in grado di colmare il buco.
I ripidi picchi dei prezzi dei combustibili che derivano da questa situazione possono provocare crisi economiche, e hanno contribuito a quella da cui il mondo si sta risollevando. È ben poco probabile che l’economia del futuro sia in grado di sopportare quel che ci riservano i prezzi del petrolio. Solo allontanandoci dai combustibili fossili possiamo, al tempo stesso, assicurare più solide prospettive economiche e affrontare le sfide del cambiamento climatico. È una trasformazione che richiederà interi decenni, ma è necessario che abbia inizio subito.
La produzione di petrolio greggio è cresciuta di pari passo con la domanda dal 1998 al 2005. Ma poi qualcosa è cambiato. La produzione è rimasta grosso modo costante per tutti gli ultimi sette anni, malgrado
un aumento del prezzo di circa il 15 per cento all’anno (considerando il prezzo del Brent sulla piazza di Londra), dai circa 15 dollari al barile del 1998 agli oltre 140 dollari al barile del 2008. Il prezzo continua a riflettere la domanda: è sceso fino a circa 35 dollari al barile nel 2009 grazie alla recessione del 2008-2009, per poi risalire con il miglioramento dell’economia globale fino ai 120 dollari al barile, e ridiscendere al suo attuale valore di 111 dollari. Ma la catena di fornitura non è stata capace di tenere il ritmo della crescita della domanda e dei prezzi.
(continua a leggere l’articolo di Nature tradotto su Le Scienze)