Sei canzoni di Whitney Houston
Le più belle, per il direttore del Post
Da Playlist, la musica è cambiata (2008), del peraltro direttore del Post Luca Sofri.
A giudicare dalla prima parte della sua carriera, Whitney Houston poteva essere una specie di Michael Jackson donna, nera per bianchi, celestialmente bella, immagine e musica patinate, languide e artificiali. Da che le sue vendite passarono da stellari a scarse, però, la sua vita diventò quella di un qualsiasi gangsta rapper, con guai di droghe e malanni vari. Ma anche Michael Jackson, in effetti, non se la passò benissimo.
Saving all my love for you (Whitney Houston, 1985)
Dite quello che vi pare, ma Whitney Houston vendette ventiquattro milioni di copie col suo primo disco. “Saving all my love for you” era una canzone di qualche anno prima che le fu proposta dal produttore, ma la mamma di Whitney era contraria per ragioni morali. Parla di una donna che ha una relazione con un uomo sposato e si rassegna a ottenere quello che può senza che lui lasci la famiglia. Alla fine la mamma capitolò, e ancora se ne rallegra.
Nobody loves me like you do (Whitney Houston, 1985)
Sono tutte uguali, già. Eppure lei ci mette sempre qualcosa, a un certo punto: qui è dove fa “what if I ever met you…” (l’altro che canta è Jermaine Jackson, ahinoi).
Greatest love of all (Whitney Houston, 1985)
Retorica egocentrica strabordante, ma con quell’apertura vocale lì, poteva strillare quello che voleva. L’aveva cantata George Benson nel film Io sono il più grande, quello su Cassius Clay. Il concetto è quello di “My way”, ma l’insistenza tradisce un evidente sospetto che nessuno ti sopporti: credo in me stessa, non mi possono togliere la mia dignità, me la sono sempre cavata da sola. Eccetera.
Love is a contact sport (Whitney, 1987)
Sui pezzi dance è sempre stata più ordinaria: non potendo ululare drammaticamente, finisce per sembrare uguale a mille altre. Questo aveva un bel ritmetto allegro, però.
Love will save the day (Whitney, 1987)
Dopo sette singoli consecutivi al primo posto in classifica – che avevano stroncato il primato precedente di Beatles e Bee Gees – l’ottavo fallì, e arrivò solo nono negli Stati Uniti. Non era poi tanto peggio: forse erano solo stufi.
I will always love you (The bodyguard, 1992)
No. Non erano stufi. “I will always love you” battè qualsiasi record – anche se fu una specie di canto del cigno: quattordici settimane al numero uno (fu superata anni dopo da Mariah Carey, il cielo ci perdoni). E la colonna sonora di La guardia del corpo (da cui era tratta la canzone) è la più venduta della storia. La versione originale era di Dolly Parton, ma l’esecuzione più memorabile per il pubblico italiano fu quella dell’allora inviato a New York del Tg3, Antonio Di Bella, in un fuori onda poi trasmesso da Blob.