Against l’articolo 18
Un articolo del Wall Street Journal riassume le opinioni di chi pensa che sia un guaio per gli italiani piuttosto che una difesa
Il Wall Street Journal ha pubblicato oggi un’analisi firmata da Matthew Melchiorre, ricercatore e analista del Competitive Enterprise Institute, un think tank americano di orientamento liberista, sulla discussione in corso in Italia sul mercato del lavoro e in particolare sulla questione dell’articolo 18. La provenienza “ideologica” dell’articolo, scritto da un analista liberista su un giornale di orientamento liberista, è particolarmente definita, ma non rende meno interessanti le considerazioni (in passato sono stati di provenienza “liberista” molti pesantissimi attacchi di testate come l’Economist o il Financial Times al centrodestra italiano e al fu PresdelCons, Silvio Berlusconi).
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si applica soltanto alle imprese che hanno più di 15 dipendenti e stabilisce l’annullamento dei licenziamenti avvenuti “senza giusta causa o un motivo giustificato”, imponendo al datore di lavoro di restituire in questo caso al dipendente licenziato il suo posto. L’obbligo prevede che vengano ripristinate le condizioni pre-licenziamento, assicurando al lavoratore licenziato lo stesso trattamento economico di cui godeva prima e la medesima posizione, nonché un risarcimento del danno subito. Nel dibattito italiano anche chi spinge per una modifica dell’articolo 18 non chiede che si renda possibile il licenziamento in assenza di giusta causa – i licenziamenti discriminatori o per motivi futili – bensì quelli per “giustificato motivo oggettivo”, cioè ragioni economico-organizzative, con i tribunali del lavoro a giudicare sulle controversie relative all’identificazione e agli eventuali abusi di ogni singolo caso.
Sul Wall Street Journal Melchiorre scrive che l’articolo 18 “rende impossibile licenziare anche il più incompetente degli impiegati” e quindi ha la conseguenza perversa di ottenere ciò che vorrebbe prevenire, la disoccupazione. Melchiorre ricorda quello che dice la legge, cioè che per licenziare un lavoratore bisogna dimostrare non solo “il mancato raggiungimento degli obiettivi e l’esigibilità della prestazione attesa” ma anche provare “la concreta e immotivata negligenza del lavoratore”. Senza la prova della negligenza “si presume che l’inadeguatezza della prestazione fornita dipenda da fattori socio-ambientali oppure dall’incidenza dell’organizzazione dell’impresa e, comunque, da fattori non dipendenti dalla volontà del lavoratore”. Che quindi non viene licenziato, salvo rifiuti deliberatamente di fare il proprio lavoro.
“Una legge potrebbe essere più vaga di così?”, chiede retoricamente Melchiorre, che si unisce a chi dice che sia complicatissimo in Italia per un imprenditore licenziare un lavoratore anche molto improduttivo sulla base di quanto dice la legge. Anche perché, aggiunge Melchiorre, i tribunali del lavoro non sono affatto imparziali e nella maggioranza dei casi – soprattutto nelle regioni con i maggiori tassi di disoccupazione -tendono ad accettare le ragioni dei lavoratori licenziati. “Con un sistema del genere, sbilanciato contro le imprese, gli imprenditori semplicemente non vogliono assumersi il rischio di assumere nuovi impiegati di cui potrebbero non avere bisogno in futuro”.
È questo sistema perverso, secondo Melchiorre, a generare i pessimi dati sulla competitività economica dell’Italia. Un rapporto della Banca Mondiale ha detto che soltanto la Grecia, tra i paesi dell’OCSE, ha un quadro economico e normativo più respingente e scoraggiante per le imprese di quello italiano. Uno studio di Stefano Scarpetta per l’OCSE ha mostrato come le aziende italiane aumentino i loro dipendenti del 20 per cento nei primi due anni di vita, contro il 160 per cento negli Stati Uniti.
Le leggi italiane sul lavoro favoriscono chi ha già un posto di lavoro alle spese di chi lo cerca. Paradossalmente, poi, queste leggi fanno male anche a chi ha oggi un posto di lavoro e presto dipenderà da chi dovrà pagare la sua pensione: i giovani. Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia si trova stabilmente tra i più alti nell’Unione Europea. Nel frattempo, in Italia la forza lavoro invecchia anno dopo anno. Dal 2001 al 2010 il numero dei lavoratori tra i 50 e i 70 è aumentato, quello dei lavoratori con meno di 50 anni è diminuito.
Melchiorre accusa i sindacati di non essere aperti a discutere nemmeno su piccole modifiche o correzioni dell’attuale assetto, citando le proteste di piazza seguite nel 2003 alla proposta di Berlusconi di sospendere l’articolo 18 per quattro anni e le dichiarazioni di aperta contrarietà alla proposta del governo Monti di sospendere l’articolo 18 per i neo assunti nei primi tre anni di lavoro, nonostante già oggi di fatto la grandissima maggioranza dei neo assunti abbia contratti che non prevedono non solo l’articolo 18 ma anche diritti basilari come ferie, malattia, maternità – e siano cancellabili in qualsiasi momento, in quanto a brevissimo termine.
E quindi alla fine le responsabilità sono della politica. Melchiorre dice che fino a questo momento ogni tentativo di riforma si è sempre scontrato con la codardia dei politici italiani che non hanno mai voluto scontrarsi contro i potenti sindacati del paese. “Monti e Fornero si stanno preparando a una dura battaglia, provando a riformare l’articolo 18 e le altre arcaiche leggi sul lavoro che hanno zavorrato la crescita italiana per quasi mezzo secolo”, conclude Melchiorre. “Incontreranno un’enorme opposizione e il loro successo è tutto meno che garantito. Ma il solo fatto che loro e molti altri politici italiani stiano parlando di un tema considerato tabù potrebbe finalmente portare al cambiamento di cui l’Italia ha disperatamente bisogno”.