Lusi, e tutto quello che c’è intorno
Perché il tesoriere di un partito sciolto aveva tutti quei soldi; e perché un partito sciolto riceve ancora un finanziamento abolito da un referendum
di Francesco Costa
Da qualche giorno in Italia si è ricominciato a parlare di finanziamento pubblico ai partiti, in relazione a quanto accaduto a un senatore del Partito Democratico, Luigi Lusi, accusato di aver sottratto 13 milioni di euro dalle casse del partito di cui era tesoriere, la Margherita: partito che teoricamente non esiste più ma che in pratica non è mai stato sciolto, e quindi continua a percepire rimborsi elettorali. La storia ha vari aspetti, riguarda il singolo caso di Lusi e quello più generale dei soldi che lo Stato versa ai partiti nonostante il risultato di un referendum del 1993, riguarda la situazione anomala in cui si trovano i due principali partiti che hanno fondato il PD, Democratici di Sinistra e Margherita, e i loro meccanismi di sorveglianza sui loro conti.
I soldi che diamo ai partiti
Fare politica costa, spiegano sempre i partiti. Costano gli affitti delle sezioni e dei teatri e delle sale in cui tenere le iniziative politiche, costano i telefoni e i manifesti, costano i viaggi, le campagne di propaganda, costano gli spot, costano gli uffici per organizzare l’attività di un partito, costano i dipendenti. I partiti italiani si sostengono con le quote versate dai propri iscritti e dai propri dirigenti (i parlamentari di norma versano parte del proprio stipendio al partito) e con le donazioni ricevute dalla società. Un simile scenario presenta però qualche profilo critico: che si fa, giusto per fare un esempio a caso, se una o più persone ricchissime mettono le loro finanze a disposizione di un partito? Come si mette il sistema politico al riparo di quello che può accadere se un grande gruppo industriale o una lobby o anche un ente pubblico si mette a finanziare massicciamente uno più partiti per ottenere dei vantaggi? O, simile e inverso, se un partito non ha fondi e deve trovare il modo di ottenere contributi privati?
Nel 1974 una legge promossa dalla Democrazia Cristiana – e votata da tutti i partiti presenti in parlamento, PCI compreso, escluso il PLI – introdusse il “finanziamento pubblico” allo scopo, teoricamente, di limitare l’effetto dei tentativi di corruzione. La legge obbligava i partiti che ricevevano il denaro pubblico a dare conto delle donazioni ricevute in bilanci trasparenti e a non ricevere donazioni da strutture pubbliche, ma non ottenne il suo scopo: alcuni scandali misero molto in discussione la sua efficacia e nel 1978 un referendum proposto dai Radicali raccolse il 97 per cento dei voti per l’abolizione del finanziamento pubblico e ne abolì una quota. Nel 1993, dopo Tangentopoli, un nuovo referendum ottenne il quorum e con il 90,3 per cento dei sì il finanziamento pubblico ai partiti venne abrogato.
Dopo il referendum
Le leggi in vigore vennero quindi aggiustate e modificate in modo tale da eliminare, teoricamente, il finanziamento pubblico: ripristinandolo però sotto altre forme. Una vecchia legge sui rimborsi elettorali fu prima allargata e poi rimpiazzata nel 1999 da una nuova che, a cominciare dalle elezioni politiche del 2001, destina dei fondi a tutte le liste che superano l’1 per cento dei voti, per tutta la durata della legislatura. Nel 2006 la legge venne ulteriormente modificata e attribuì il finanziamento per cinque anni dal voto, anche se la legislatura dovesse finire prima. Parliamo di molti soldi: 468 milioni di euro per ogni legislatura, quasi mezzo miliardo di denaro pubblico.
Le moltiplicazioni del finanziamento
La legislatura iniziata nel 2006, quella con le elezioni vinte di pochissimo dal centrosinistra, finì nel 2008. I partiti che ottennero almeno l’1 per cento dei voti (quindi anche alcuni che non sono in parlamento, avendo ottenuto meno voti della soglia di sbarramento per eleggere parlamentari) continuano però a percepire i “rimborsi” per tutto il 2011, e a quelli si sommano i “rimborsi” relativi alle elezioni politiche del 2008, quelle che hanno dato inizio alla legislatura in corso. Questa è la prima sovrapposizione paradossale: per non essere “finanziamento pubblico dei partiti” devono essere rimborsi elettorali, ma questo rende priva di senso la loro assegnazione in anni non elettorali, e doppiamente privo di senso il loro raddoppio. Poi c’è un’altra questione. Nel 2008 i due principali partiti politici, Popolo delle Libertà e Partito Democratico, erano appena nati dalla fusione di quattro partiti politici: Alleanza Nazionale e Forza Italia, il primo, Democratici di Sinistra e Margherita, il secondo. Quindi succede che Popolo delle Libertà e Partito Democratico ricevano i rimborsi elettorali per le elezioni 2008 mentre Alleanza Nazionale, Forza Italia, Democratici di Sinistra e Margherita continuavano a percepire i rimborsi per le elezioni del 2006. Questi partiti, infatti, formalmente esistono ancora: non fanno attività politica – alcuni sono diventati amministrativamente delle fondazioni – ma hanno sedi, uffici, dipendenti, patrimoni. E soldi.
Arriva Luigi Lusi
Luigi Lusi è nato a Roma, ha cinquant’anni, è avvocato e la sua carriera politica è stata praticamente sempre legata a Francesco Rutelli. Nel 1994 diventò consulente giuridico del comune di Roma, mentre Rutelli ne era sindaco; dal 1996 fu consulente per la sicurezza sempre per il comune di Roma. Nel 1999 delegato del sindaco di Roma, nel 2000 consigliere di amministrazione in una municipalizzata, nel 2001 tesoriere del comitato Rutelli (che nel frattempo era candidato premier), dal 2001 al 2004 vice presidente di Trambus, la società dei tram a Roma. Nel 2002 divenne tesoriere della Margherita.
Nel 2006 fu eletto al Senato con l’Ulivo, rieletto nel 2008, e rimase nel Partito Democratico anche quando Francesco Rutelli lasciò il partito e fondò Alleanza per l’Italia, nel 2009.
L’inchiesta
Il 31 gennaio 2012 Luigi Lusi è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura della Repubblica di Roma. L’accusa è appropriazione indebita. Secondo i pm, Lusi avrebbe sottratto poco meno di 13 milioni di euro dal conto corrente della Margherita, su cui aveva diritto di operare insieme all’ex presidente del partito Francesco Rutelli. L’inchiesta era cominciata lo scorso novembre, quando la Banca d’Italia aveva segnalato alcuni movimenti sospetti sul conto corrente del partito: “i movimenti”, racconta Carlo Bonini su Repubblica, “sono decisamente consistenti per un partito che ha cessato di esistere e dunque dovrebbe presentare un profilo finanziario ‘conservativo'”. Dal conto corrente della Margherita nel giro di due anni sono usciti 90 bonifici diretti a una società, la “T. T. T. srl.”, riconducibile allo stesso Lusi. La società risulta avere impiegato quel denaro nell’acquisto di un attico a Roma e di una villa a Genzano.
Lusi ha ammesso le accuse, assumendosi tutte le responsabilità e impegnandosi a restituire parte del denaro. I giornali hanno parlato della possibilità che Lusi restituisse solo parte del denaro sottratto, quello ancora nella sua disponibilità e quello che nel frattempo non è stato versato in tasse relativamente all’acquisto dei due immobili. Francesco Rutelli, che si è detto «incazzato e addolorato» ha spiegato giovedì a Otto e mezzo su La7 che «vedremo che cosa ci viene proposto, però intendiamo recuperare fino all’ultimo centesimo: non ci può essere un accomodamento senza la piena restituzione del maltolto». Relativamente alla sorveglianza sul conto corrente della Margherita, su cui era co-firmatario, Rutelli ha risposto così a chi gli dice che “non poteva non vedere”:
«Il fatto è che c’è una cultura in cui il capo del partito è anche quello che ha la cassa, mentre la mia è una cultura fatta di passione e così, quando hai instaurato quattro livelli di controllo e succedono queste cose, ti senti fregato. Quattro livelli: i revisori dei conti, il comitato di tesoreria, l’assemblea federale e il controllo finale della Camera. Tutti sono stati elusi»
L’ufficio di presidenza del Partito Democratico al Senato ha espulso Lusi dal gruppo parlamentare. Nel frattempo si è riaperto il dibattito su quello che di fatto è il finanziamento pubblico dei partiti, e sui modi – legittimi – con cui partiti esistenti o esistiti ne approfittano.