“Una rottura preparata e calcolata”
Concorrenza sfrenata, costi altissimi, un vuoto di potere e sindacalisti ambiziosi: Dario Di Vico mette insieme le cose da sapere per capire lo sciopero dei tir
Anche oggi in tutta l’Italia proseguono i blocchi degli autotrasportatori. I caselli stradali e autostradali bloccati sono circa un centinaio e potrebbero proseguire fino a venerdì, impedendo o ritardando i rifornimenti di prodotti freschi nei negozi e di carburante negli impianti di distribuzione. Questa mattina, inoltre, un camionista è stato investito da un tir sulla statale 10, ad Asti, ed è morto. Secondo i primi accertamenti della polizia stradale si tratterebbe di un incidente: l’uomo si sarebbe aggrappato alla portiera del mezzo per bloccarlo e sarebbe caduto sotto le ruote. La donna che guidava il tir è in stato di fermo. Oggi sul Corriere della Sera Dario Di Vico scrive un articolo che spiega in modo chiaro e interessante le ragioni delle proteste, e il quadro politico e sindacale da cui scaturiscono.
Il mondo dell’autotrasporto italiano è il set ideale di un grande film. Non della solita commediola vernacolare ma di una pellicola a tinte forti, come quelle del neorealismo di una volta. Nel mondo dei Tir e dei padroncini il business è sangue-e-merda, è una lotta quotidiana per sopravvivere, euro per euro. E anche il fermo di ieri che ha bloccato dal Nord al Sud un Paese che, invece, avrebbe bisogno solo di ripartire è una storia dove confluiscono le vicende umane di una categoria che teme la decimazione e il protagonismo di chi fa rappresentanza sociale e capisce che in questo momento c’è un vuoto di potere. Un ruolo importante nella vicenda lo sta giocando Maurizio Longo, ex segretario della Fita-Cna uscito dall’organizzazione dopo il fermo del 2007, giudicato un successo dal punto vista mediatico ma un flop dal punto di vista sindacale. Longo oggi capeggia una piccola associazione, Trasportounito, che avrà un paio di migliaia di iscritti ma che grazie a un complesso gioco di alleanze conta molto di più. Ieri le sue dichiarazioni sembravano quelle di un generale vittorioso che si permette di mettere alla berlina gli inquilini di Palazzo Chigi: «Abbiamo raggiunto un risultato importantissimo sulle strade e la gente comune ha capito le nostre ragioni. Il governo invece è assolutamente lontano dai problemi veri degli italiani».
In verità il decreto delle liberalizzazioni adottato venerdì scorso dal governo Monti non peggiora la condizione dei padroncini, anzi. La reazione dunque non è avvenuta a botta calda, l’agitazione era stata proclamata già da dicembre e andava di fatto a rompere l’atteggiamento di tregua che ha caratterizzato il mondo dell’autotrasporto ai tempi del governo Berlusconi. Una rottura preparata e calcolata. Con il centro-destra al governo, infatti, le associazioni dei padroncini avevano instaurato un filo diretto con l’esecutivo grazie all’asse Uggè-Giachino. Il primo è una vecchia volpe di questo mondo, è stato sottosegretario in due governi Berlusconi e poi deputato, capeggia la Fai, una delle organizzazioni più rappresentative. Ha la fortuna di avere come vicepresidente addirittura Fabrizio Palenzona e già questo basta per capire la caratura del personaggio e la sua capacità di tessere la tela dei rapporti trasversali che gli hanno fatto ottenere persino una laurea honoris causa all’università Pro Deo di New York. Bartolomeo Giachino, deputato piemontese, è stato sottosegretario ai Trasporti ed è l’uomo che ha garantito la pace sociale per tre anni. È dal 2008 infatti che l’avvento della Grande crisi il mondo del trasporto su gomma è entrato in una fase di indicibile sofferenza. Un numero su tutti: il costo del gasolio da allora è salito all’incirca del 24% l’anno e si tratta di una voce che incide quasi per un terzo del fatturato. Nel frattempo il lavoro è diminuito e le tariffe sono state livellate in basso in virtù di una concorrenza che definire spietata è addirittura eufemistico. E che ha visto entrare sul mercato italiano imprese di quasi tutti i Paesi dell’Est, dalla vicina Slovenia fino alla Turchia. Per avere un termine di paragone la paga di un camionista rumeno è del 40% più bassa di quella di un collega italiano.
Mentre il governo Prodi un blocco dei Tir se l’era preso sui denti (vigilia di Natale del 2007), Berlusconi no. Tutto in virtù di un lungo negoziato che aveva portato al varo di una misura decisiva per gli autotrasportatori «deboli» come quella sui costi minimi di sicurezza. Nei piani doveva servire a garantire il recupero degli extra-costi da crisi e a evitare quantomeno di viaggiare in sovraccarico, con tempi e riposi contingentati al minimo. O la legge non ha funzionato o si è rivelata un pannicello caldo a paragone con la profondità della crisi. Il risultato è stato che la categoria è rimasta comunque sempre in ebollizione. Delusa e scontenta. Del resto i motivi non mancano: chiudono 10 mila piccole imprese di trasporto l’anno, chi lavora con le pubbliche amministrazioni è ancora lì ad aspettare che lo paghino e su 110 mila aziende che possiedono camion e trasportano merci ce ne sono altre 45-50 mila che non hanno nemmeno un veicolo e che operano solo come broker. Il disagio, dunque, è forte, la paura delle liberalizzazioni costante e per così dire ideologica, ma con il passaggio dal governo Berlusconi a quello Monti è cambiata la governance del settore, il potere reale, l’asse Palazzo-strada. Giachino non è stato riconfermato, la partita è passata al viceministro Mario Ciaccia, la musica però non è più la stessa.
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foto: LaPresse