Davanti ai forconi
Giuseppe Provenzano spiega cosa succede in Sicilia, combattendo le vertigini
di Giuseppe Provenzano
Vengono le vertigini, per la voragine di drammi e rivendicazioni, fame e offese che il “movimento dei forconi” ha richiamato. È il ventre di Sicilia, aperto da tempo, che la crisi ha rovesciato per strade e porti. Per la verità il movimento è un blocco, come capita. E quaggiù sempre vi s’aggiunge la metafora, il segno che rivela verità mangiate a parole: il blocco nell’Isola bloccata, moltiplicatore d’immobilità.
Gli “imbecilli di sinistra” – peggiori di quelli di destra, diceva Leonardo Sciascia, per il vizio di complicare sempre le cose, specie quando le cose andrebbero semplificate – ora spiegano che “non c’è nessuna rivoluzione in corso”, che “voi non sapete chi c’è dietro”, e così via cantandosela e suonandosela. Come se qualcuno con un minino di lume davvero cercasse rivoluzioni nei padroni dei TIR che rivendicano il consumo a buon mercato di gasolio. E cosa c’è dietro, se non il marasma economico, sociale e persino umano nella Sicilia e nel Sud della crisi? Una crisi che ha colpito tutto il paese, ma per lo squilibrato sistema di welfare e l’elevato grado di evasione e di elusione contributiva, e per essersi sommata adebolezze strutturali aggravate negli anni Duemila, ha scaricato sul Sud gli effetti sociali più drammatici di disoccupazione, scoraggiamento e miseria: meno della metà di occupati tra la popolazione attiva e licenziamenti “senza paracadute”; imprenditoria (quasi tutta) legata a commesse pubbliche bloccata nella paralisi amministrativa e strozzata dal credito, mentre l’industria mafiosa è l’unica con liquidità; un terzo della popolazione sotto la soglia di povertà e crollo dei consumi perfino di beni di prima necessità.
È così che una protesta scomposta, dai programmi generici o minimi ed egoisti – nel ripiegamento localistico di un Sud impoverito e offeso dall’ostilità diffusa dell’opinione pubblica che conta e abbandonato alla seduzione di fenomeni culturali deteriori come quello di Pino Aprile (teorico insidioso del “terronismo” a cui non pare vero di vederlo praticato a mani grosse) – raccoglie vasta solidarietà e simpatia popolare, da parte degli stessi cittadini pur vittime di disagi gravissimi. Ma davvero può sorprendere, in un Paese che ripetutamente si chiedeva del suo Mezzogiorno: “com’è che non scoppia la rivolta”? Il Sud in condizioni da “primavere arabe” finalmente l’ha accontentato – ed è l’ennesima volta, in verità, ché le rivolte sono sempre scoppiate, in questi anni, per acqua, rifiuti e sanità quasi ovunque, e da Castelvolturno a Nardò. Stavolta il Paese – che accorre a Palermo con le sue migliori firme, gli Aldo Cazzullo che si soffermano sulle “bocche sdentate” – quanto ci metterà a dimenticare?
Tra i “forconi” si addensano ombre nere e si registrano violenze e intimidazioni di stampo mafioso: e certo non può sorprendere, a chi ha un minino di cognizione delle cose di Sicilia (e d’Italia, dunque) che si siano mossi, persino tra i più attivi organizzatori, uomini in puzza di mafia. In movimenti del genere c’è di tutto, si sa, e le etichette servono solo a camuffare meglio.
Però, il problema principale non sono gli avventurieri neri ma gli sventurati sempre più in balìa, quelli che partecipano in buona fede, che chiedono magari risposte sbagliate a problemi veri (l’accesso al credito, il costo dei prodotti agricoli, la pesca nel Mediterraneo, e così via). La disperazione sociale, che ha provato a sfogare la sua rabbia in proteste troppo al lungo “senza voce”, ora si volge nel vecchio ribellismo meridionale buono a preparare ogni conservazione. Nelle forme di un’antipolitica feroce e brutale vi s’infiltra la peggiore politica, e non è detto che tutto non finisca con il ridare ruolo all’intermediazione impropria dei soliti notabili. Gravi sono i sospetti e i tentativi di strumentalizzazione da parte di personale di riciclo (specie nella galassia autonomista e della destra pidiellina), che è il precipitato purissimo –impurissimo, cioè – degli oltre sessant’anni di classi dirigenti siciliane che hanno ridotto l’isola alla marginalità e alla dipendenza.
Liquidare la protesta, persino con le migliori ragioni, come fa il presidente della Confindustria siciliana, Ivan Lo Bello, per il fatto che vi siano fascisti, reazionari e mafiosi, rischia solo aggravare le cose e le responsabilità della politica. Non tutto si può fare a Palermo, e quasi niente. Ma quel “quasi” è decisivo, anche sul piano simbolico, di fronte a un popolo che sprofonda in una miseria che non è mai solo materiale. Perché i piani (e i fondi) per l’agricoltura, per dire, sono bloccati? Il movimento si lamenta della disattenzione dei media per la Sicilia, e così ora vuole risalire la penisola, è già in Calabria. Ecco, l’Italia forse guarda la Calabria? La Calabria deindustrializzata guarda lo smantellamento delle industrie in Lombardia? L’Europa guarda forse a Lampedusa e i siciliani forse guardano alla Romania? È il naufragio che ci fa tutti ciechi e vigliacchi, ma la politica ha il dovere di tornare a bordo.
Non serve guardare le facce dei capipopolo d’occasione, o le loro storie ambigue, per capire che con gli indignados non c’entrano proprio nulla. Ma se a loro va la solidarietà di quelli che dovrebbero indignarsi ad ogni età, il problema è di chi avrebbe il dovere di rappresentare questi ultimi nel mondo che s’è guastato. La vasta solidarietà popolare (di cui Internet e i social network sono espressione genuina) passerà presto, per le modalità gravi e sbagliate della protesta e per la mancanza di richieste concrete, a parte quelle prive di ogni buon senso. Però c’è stata. E ci racconta di una grande fallimento: quello della sinistra meridionale e delle sue classi dirigenti, della mancata prossimità ai bisogni prim’ancora della capacità di rispondervi. Non c’è più tempo per ricostruirne analisi e ragioni. È accaduto, accade, bisogna solo prenderne atto. Se sono stati i “forconi” a risvegliare la coscienza di un popolo troppo assopito, bene, non avvertiamo noi, la sinistra democratica, una forte responsabilità? Non si sono mossi alla denuncia del lungo malgoverno meridionale, che sotto il berlusconismo si era rinnovato e riprodotto, provocando buona parte dei disastri di oggi? È vero, ma che importa, se larghi settori delle nuove generazioni, le più offese dal nostro tempo, dopo la lunga e diffusa disaffezione, al primo fruscio di protesta hanno solidarizzato e mostrato tutto il loro disprezzo per la politica. O pensiamo davvero di coinvolgerli, in questo marasma, con le sole cose che dalle nostre parti sembrano appassionarci: primarie, candidature e cavallerie rusticane? Alcuni di loro sono ai blocchi, altri inneggiano su Facebook ai forconi e già evocano le forche. Sono loro la questione democratica, vecchia e nuova come pane e lavoro. La gente che lavora (sì, anche i “padroncini” – così li chiama la stampa progressista – dei camion e dei trattori) e la gente che non ha mai lavorato, e gli uni e gli altri che non ce la fanno più. Per “cinque giornate” protagonisti e per tutti le altre vittime, in qualche caso anche di se stessi.
Fra un giorno o due passerà pure questa rivolta (che i giornali borghesi, avrebbe detto Salvemini, chiameranno “rivolta degli ignoranti e degli straccioni”), ma il Sud resterà della sua fame. È questo che fa male alla causa democratica nel Mezzogiorno, più d’ogni protesta più o meno condivisibile. Cosa c’è davanti ai “forconi”, bisognerebbe chiedersi a sinistra, non dietro. Davanti alla lunga recessione, alla deprivazione materiale e morale, alla mancanza di prospettiva, che fare? Non è vero, si sa che fare, e sono così tante cose che basta solo cominciare.
foto: MARCELLO PATERNOSTRO/AFP/Getty Images