La testimonianza di Hrant Dink
Cinque anni fa fu ucciso a Istanbul un giornalista che aveva ricordato il genocidio degli armeni
di Matteo Miele, Royal University of Bhutan
Cinque anni fu ucciso a Istanbul il giornalista armeno Hrant Dink. Aveva 52 anni e si trovava poco lontano da Agos, il giornale di cui era direttore e che veniva pubblicato in armeno e turco. Il suo assassino non aveva ancora diciotto anni. Dink venne ucciso perché “testimone” di un crimine che la storia ha ormai riconosciuto e condannato, ma stenta ancora a trovare giustizia: il genocidio degli armeni, un milione e mezzo di persone uccise dai Giovani Turchi nel 1915 per creare uno stato nazionale. Pochi mesi prima di essere assassinato era stato condannato per aver scritto del genocidio armeno, sulla base dell’articolo 301 del Codice penale turco, che punisce l’offesa all’identità turca, una sorta di passepartout per imbrigliare la libertà di stampa e di espressione nel paese. Il suo funerale si trasformò in un momento di grande commozione per la città e per il paese intero che ora si interrogava davanti alle centomila persone che gli rendevano omaggio con lo slogan “siamo tutti armeni”.
La Turchia che chiede l’ingresso nell’Unione Europea continua sistematicamente a rifiutare il riconoscimento del genocidio armeno. Un milione e mezzo di bambini, donne e uomini trucidati nelle loro case di Istanbul o dell’Armenia storica, oppure lasciati morire nel deserto siriano. Il popolo armeno, i suoi superstiti, è rimasto come testimone. È testimone nella Repubblica d’Armenia, che copre meno di un quarto del territorio dell’Armenia storica, con Yerevan, la capitale che ammira impotente il monte Ararat, oggi oltreconfine, simbolo di un’identità tormentata. È testimone nella Diaspora, in Medio Oriente, nelle Americhe, in Europa. È testimone a Venezia. È testimone nella richiesta di libertà degli uomini e delle donne dell’Artsakh e nell’amorevole conservazione dei libri e dei manoscritti, legami con la propria storia.
Hrant Dink era uno di questi uomini.
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