Taiwan nel limbo
La rielezione di Ma Ying-jeou e le pressioni di Stati Uniti e Cina tengono in sospeso il destino dell'isola
di Matteo Miele, Royal University of Bhutan
A Pechino e Washington tirano così un sospiro di sollievo. I risultati delle elezioni presidenziali a Taiwan arrivano rassicuranti per le due sponde del Pacifico. Oltre il 51 per cento dei taiwanesi ha riconfermato Ma Ying-jeou alla presidenza. La sfidante, Tsai Ing-wen, candidata del Partito Democratico Progressista, movimento che sostiene l’indipendenza, ha ottenuto il 45,6 per cento. Il terzo candidato James Soong, ex-governatore della Provincia di Taiwan, non raggiunge nemmeno il 3 per cento.
Sessantuno anni, Ma Ying-jeou è esponente del Guomindang (Kuomintang secondo la trascrizione in uso sull’isola), il partito nazionalista che aveva guidato buona parte della vita della Repubblica di Cina prima sul continente e, dopo il 1949, a Taiwan. Sconfitti quindi i democratici progressisti, partito nato negli anni Ottanta con il fine della democratizzazione di Taiwan, per decenni dittatura filo-occidentale e poi organizzazione indipendentista, con l’obiettivo di rompere definitivamente con Pechino.
Quando in Cina e qui sull’Himalaya è ormai tarda serata contatto Matthew Kao, un amico taiwanese che da sei mesi vive a Shanghai. Matthew è un simbolo di questo ritrovato legame tra la Cina popolare e quella nazionalista che dal 1949 si contendono la legittimità sull’intero paese. Molti sono infatti i taiwanesi che si stanno spostando a lavorare sul continente. Secondo Matthew le relazioni pacifiche con la Cina popolare aiutano lo sviluppo e gli affari e i taiwanesi hanno confermato questa impressione con il voto.
Taiwan rimane però in un limbo. Cerchiamo di vedere brevemente le posizioni in campo:
1. La posizione del PDP per una dichiarazione d’indipendenza unilaterale sebbene pericolosa e assolutamente impraticabile, rimane chiara.
2. Il Partito Comunista Cinese negli anni della crescita ha saputo avvicinare il destino economico della “provincia” al continente. La strategia e il fine di Pechino sono ovvi. All’integrazione economica dovrà necessariamente succedere una pacifica unificazione, scongiurando così il pericolo di una guerra che nessuno vuole, Cina popolare per prima.
3. Dall’altra parte del Pacifico anche negli Stati Uniti sono stati contenti del risultato. Per Washington, nel 2012, Taiwan è ormai solo l’eredità di quella muraglia che doveva arginare l’espansione comunista. Taiwan, Corea del Sud, Giappone erano i mattoni dell’Estremo Oriente. Meglio i nazionalisti che la seccatura dei democratici progressisti, con il rischio di dover mandare (di nuovo) qualche nave nello Stretto.
4. Dunque sono contenti a Pechino e a Washington. La questione che rimane irrisolta però è il futuro del Guomindang. C’è la necessità di chiarezza da parte dei nazionalisti. Procedere nell’integrazione economica significa rafforzare i legami con il continente e dunque con i più forti. Reclamare la legittimità sul governo di tutto il paese da parte di Taipei, dopo la fine della Guerra fredda e la rinascita economica cinese, è vanagloria. Non si riesce a scorgere la visione politica di lungo periodo dei nazionalisti. Pare un lento suicido politico. Quale sia la via di “sopravvivenza” dei rampolli di Chiang Kai-shek rimane un mistero.
foto: AP/Vincent Thian