50 anni di tette rifatte
La storia delle protesi al seno, oggi messe sotto accusa dopo il caso della società francese che ne produceva di pericolose
Timmie Jean Lindsey non aveva ancora trent’anni quando decise di divorziare. Lavorava in una fabbrica del Texas e si era sposata a 15 anni, diventando negli anni seguenti la madre di sei figli. Dopo il divorzio, Lindsey trovò un altro compagno, che la incoraggiò a tatuarsi una rosa sul seno, ma la relazione finì presto e così la voglia di tenere il tatuaggio. La donna non aveva denaro a sufficienza per permettersi l’operazione necessaria per cancellare il tatuaggio, ma riuscì a trovare una clinica di un’associazione caritatevole disposta a operarla gratuitamente. I medici spiegarono a Lindsey che per cancellare il tatuaggio sarebbe stato necessario abraderlo, cosa che avrebbe lasciato segni evidenti con le tecniche dell’epoca, e le chiesero se non fosse invece interessata a un impianto per valorizzare meglio il suo seno, e di conseguenza la rosa tatuata. Nel 1962 Lindsey sarebbe diventata una delle prime donne al mondo ad avere impiantate due protesi di silicone al seno.
Fino ai primi anni Sessanta le pratiche per aumentare il seno non avevano avuto molta fortuna ed erano state alla base di grandi problemi clinici. A partire dalla fine dell’Ottocento, i medici iniziarono a sperimentare diverse tecniche per accrescere chirurgicamente le dimensioni del seno, modificarne la forma o la consistenza. Nel 1889 Robert Gersuny provò a iniettare direttamente la paraffina, ottenendo risultati disastrosi. Vincenz Czerny, un medico austro-tedesco, nel 1895 seguì la strada dell’autotrapianto trasferendo parte del tessuto adiposo di una paziente per compensare un’asimmetria al seno dovuta alla rimozione di un tumore.
Durante la prima metà del Novecento le sperimentazioni andarono avanti e si testarono molti altri materiali come avorio, biglie di vetro, gomma, cartilagine di bue, poliestere, guttaperca (simile al caucciù), grani di polietilene, spugne sintetiche e nastri di polietilene raggomitolati. Tra il 1945 e il 1950, furono anche sperimentate altre metodologie per spostare e tendere la pelle, così da rendere più tonico o alto il seno. Nel decennio successivo, la tecnica che si affermò maggiormente fu quella di usare sostanze sintetiche per riempire il petto delle pazienti. Il silicone fu usato in circa 50mila interventi su altrettante donne, che in molti casi svilupparono patologie gravi come lesioni dovute all’infiammazione cronica dei tessuti (granuloma), rendendo necessaria la rimozione chirurgica della mammella (mastectomia).
(Il caso delle protesi al seno pericolose)
Anche per questi motivi fino al 1962 a Timmie Jean Lindsey non era mai venuto in mente di sottoporsi a un intervento per risollevare il seno e riportarlo a com’era prima delle sue sei gravidanze. Ne aveva parlato una volta con una cugina, racconta oggi: «Aveva avuto un qualche tipo di operazione. Mi diceva: “A volte mi sveglio e il mio seno s’è spostato da un’altra parte del corpo”. Pensai: “Mio Dio, non farei mai nulla del genere”. Non fu molto dopo questa chiacchierata che entrai in contatto con i medici».
Lindsey ricevette la proposta di farsi aumentare il seno da un gruppo di medici guidato da Thomas Cronin, che tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta si era dato da fare per progettare e testare un nuovo tipo di protesi al silicone. La svolta si ebbe quando uno dei colleghi di Cronin, Frank Gerow, ebbe un’importante intuizione durante una visita alla banca del sangue, come racconta un suo collaboratore che all’epoca aveva 29 anni, Thomas Biggs: «Avevano da poco smesso di mettere i liquidi nelle bottiglie di vetro e avevano iniziato a usare le sacche di plastica. Stava camminando con una sacca piena di sangue in mano e si rese conto che aveva la stessa consistenza del seno femminile».
Nello stesso periodo Cronin incontrò un collega di lavoro durante un meeting sulla chirurgia plastica a New Orleans. Si misero a chiacchierare e saltò fuori che c’era una società che stava lavorando a un nuovo prodotto molto promettente: causava poche reazioni da parte dell’organismo umano, poteva essere di diverso spessore e densità, tanto da poter essere realizzato sia in forma solida sia in forma liquida. Poteva essere utilizzato per creare un involucro simile a quello delle sacche per il sangue, quindi, con un interno dello stesso materiale, ma liquido.
Cronin ci lavorò a lungo riuscendo a realizzare un primo prototipo, che fu impiantato in un cane. L’intervento ebbe esito positivo e poco tempo dopo, nel 1962, i medici entrarono in contatto con Lindsey e le proposero di farsi impiantare le protesi con il gel al silicone. «Mi chiesero se volessi le protesi e gli dissi: “Beh, non saprei proprio che dire”. L’unica cosa che avevo sempre voluto cambiare erano le mie orecchie. Gli dissi che avrei preferito farmi sistemare quelle al posto di un nuovo seno, e loro mi dissero che avrebbero messo a posto anche quelle» racconta Lindsey, che oggi ha 80 anni e vive ancora in Texas.
Il 2012 segna il cinquantesimo anniversario della prima operazione di impianto di protesi al seno di quel tipo. In così tanti anni le cose sono cambiate sensibilmente: le tecniche per innestare le protesi sono diventate meno invasive e sono stati adottati materiali più sicuri, per ridurre le reazioni e le infiammazioni. Stando alle stime dell’American Society for Aesthetic Plastic Surgery, nel 2010 negli Stati Uniti sono state eseguite 318.123 operazioni di aumento del seno. In Italia, dice la Società italiana chirurgia plastica ricostruttiva estetica (SICPRE), le richieste nel 2008 per una mastoplastica sono state 50mila. In tutto il mondo, si stima che le operazioni siano state tra i 5 e i 10 milioni per altrettante donne sia per motivi cosmetici sia per ragioni mediche, legate per esempio a operazioni di ricostruzione di una delle due mammelle in seguito alla rimozione di forme tumorali.
Gli interventi per aumentare il seno sono molto popolari in Occidente, mentre in paesi come Cina, Giappone e India la domanda è per un altro tipo di chirurgia estetica. Sono più richieste operazioni di rimozione del grasso (liposuzione), di rimodellamento del naso (rinoplastica) e di modifica delle palpebre (blefaroplastica). In Brasile, invece, c’è una maggiore richiesta di interventi per ridare tono e dimensione ai glutei.
Intervistato dal Guardian, il chirurgo estetico Douglas McGeorge spiega che ci sono sostanzialmente due gruppi di donne interessate: «Quelle nate con un seno piccolo, scontente per la loro taglia e desiderose di averne una più grande, che di solito si fanno avanti verso la fine dell’adolescenza o da ventenni. Poi ci sono le donne che hanno avuto bambini. Il loro seno si è ingrandito e ora, dopo la gravidanza, si è svuotato e cercano un modo di riempirlo». Prima di procedere con l’operazione i medici hanno il dovere di spiegare come funzionano le cose e quali rischi si possono correre. In alcuni casi, però, le informazioni sono carenti o tese a incentivare comunque il ricorso all’intervento.
Le complicazioni di una mastoplastica possono essere numerose e comprendono, per esempio, la contrattura capsulare: l’organismo risponde alla presenza di un corpo estraneo come la protesi formandovi intorno una spessa cicatrice che comprime l’impianto facendogli assumere una forma sferica molto pronunciata e dura. Se si formano anche delle infezioni è necessario operare nuovamente per rimuovere le protesi. Sono poi necessari mesi per curare la parte lesa e intervenire nuovamente per inserire un altro impianto. Altre complicazioni possono interessare la sensibilità della parte, specialmente dei capezzoli, o la possibilità che si accumuli del sangue intorno alla protesi formando un ematoma.
Altri rischi possono essere connessi all’utilizzo di materiali non adatti e pericolosi per la salute. Nelle ultime settimane, per esempio, si è parlato molto dell’azienda francese PIP (Poly Implant Prothese), accusata di aver fabbricato protesi per il seno contenenti silicone originariamente destinato per la produzione di materassi, ma non adatto per gli impianti. In Francia il problema delle protesi PIP interessa circa 30mila donne e lo Stato ha deciso di occuparsi del problema garantendo la sostituzione degli impianti a chi si era sottoposto all’intervento per motivi di salute. In Italia si stima che le donne con protesi PIP siano circa 4mila e in particolari casi il Sistema sanitario nazionale si farà carico della loro sostituzione. Le protesi della ditta francese non sono cancerogene, ma hanno più probabilità di rompersi e quindi di creare infiammazioni e infezioni.
Come testimoniano i primi tentativi effettuati a fine Ottocento e diverse pubblicazioni dell’epoca, che suggerivano sistemi e pratiche anche molto dolorose per aumentare “naturalmente” le dimensioni, il modello estetico legato a un seno più grande si è progressivamente affermato fino a rendere del tutto accettato – almeno in buona parte dell’Occidente – che le donne ricorrano a questo tipo di interventi. Numerosi ricercatori si sono occupati del tema, come Virginia L. Blum, docente alla University of Kentucky: «Stavo guardando un’attrice sullo schermo l’altro giorno ed era chiaro che si era rifatta il seno, e ho pensato: beh, in effetti capita di continuo. È qualcosa di innaturale, ma è diventato del tutto naturale da vedere. È parte del nostro panorama estetico. Penso che ormai non sia considerata una cosa estrema, ma qualcosa di ordinaria amministrazione: il seno afflosciato non è più considerato un risultato inevitabile della nascita dei bambini, ma semmai è vissuto come qualcosa che manca».
Secondo Marilyn Yalom, autrice di un libro sulla storia del seno, il seno rifatto è la rappresentazione di qualcosa di “perfetto e non usato”: «Non usato perché non è lì per allattare. E questo modo di vedere le cose può essere fatto risalire fino ai tempi del Rinascimento, quando c’erano uomini che non volevano che le loro mogli allattassero al seno, perché avrebbe cambiato forma, e affidavano il compito alle balie. Ci sono stati diversi tempi e luoghi, storicamente, in cui per le donne di una certa estrazione sociale non era comune allattare al seno».
Da quando collaborava con gli inventori delle prime protesi al seno nel 1962 alla fine della sua carriera, Thomas Biggs ha effettuato circa ottomila operazioni e nel corso del tempo si è convinto che le sue pazienti volessero semplicemente riaffermare la loro appartenenza di genere, anche fisicamente. Racconta anche di non essersi mai preoccupato molto all’idea di inserire nelle prime pazienti delle sacche di silicone, che avrebbero potuto portare a complicazioni molto gravi. Nello stesso periodo in cui fu operata Lindsey, il gruppo medico di Cronin e Gerow sottopose al medesimo intervento altre undici donne. Andò tutto bene in sala operatoria, ma ebbero tutte problemi e complicazioni nei mesi seguenti.