Le scritte sui muri degli ospedali
Concita De Gregorio racconta i "murales dell'impazienza" sui muri delle sale d'aspetto nei reparti maternità, e quello che ci dicono
Concita De Gregorio sulle pagine culturali di Repubblica di oggi racconta di un fenomeno umano in cui chiunque si è imbattuto, almeno una volta nella vita: le sale d’aspetto dei reparti maternità degli ospedali, e le scritte sui loro muri. C’è dentro un mondo.
Download now. Scarica adesso. Nel tempo senza tempo del clicca qui, ora, e sarai a Nuova Deli fra un attimo, corri in Formula Uno sulla Wii e fai Capodanno in videochat con gli amici in America resta davvero poco nella vita reale di cui non si sappia con esattezza quanto tempo ci voglia a ottenere il risultato, nessun display che ti dica “mancano 34 minuti al completamento dell’operazione” così che metti su il caffè, fai una telefonata e quando torni puoi tranquillamente rientrare nell’immobile presente globale, in viaggio davanti al tuo schermo.
Restano, a ricordarci che siamo tutti figli dell’attesa – parola fastidiosa, desueta e ai più piccoli quasi sconosciuta – due soli episodi. Pochi, tuttavia di una certa importanza. La nascita e la morte si prendono il loro tempo a dispetto delle previsioni, delle cure e soprattutto della volontà di chi le attraversa. Il modo che scelgono non dipende da noi. Il giorno e l’ora sono ignoti. Bisogna aspettare, che è un’arte – la pazienza – e una virtù a rilascio lento, si impara tardi e di solito a un prezzo che non si conta in moneta, a volte non si impara mai.
I murales dell’impazienza – titolo ideale: “Asia, sbrigate” – incisi e dipinti nelle sale d’aspetto dei reparti maternità sono i trittici contemporanei dell’Avvento, versione pop degli affreschi del tempo in cui davvero c’era tempo, tanto. Meravigliose cronache di un immaginario impermeabile ai sondaggi di opinione e di mercato raccontano un’Italia sprovvista del senso dell’ineluttabile e dell’essenziale necessario. Parlano di un Paese multietnico dominato dalla cultura televisiva e divistica dove il nonno si chiama Sandro e la nipote Suyana, di un nuovo alfabeto colmo di acca iniziale, di ipsilon e di kappa, vocali e consonanti ignote alla memoria scolastica degli abbecedari. Parlano della scomparsa della parola scritta e descrivono in una foto (“Shanel, ti amo”) il sogno di avere una figlia che come quella di Totti porti lo sponsor incorporato alla nascita e l’evidenza del sapere – persino quello dei marchi – soltanto orecchiato, mai letto, sentito alla radio e in tv. Insieme, però, narrano di una commovente condizione di impotenza e struggimento e dell’unica vera ricchezza di cui anche chi non ha nient’altro può disporre, dell’unica fonte di felicità assoluta colta nell’attimo in cui si manifesta, che dopo sarà un’altra storia: avere un figlio, questo è quel che rende tutti in quell’istante ugualmente disarmati e colmi di meraviglia.