Elogio della doppia cittadinanza
L'Economist parla di una questione che oggi incontra nuove resistenze
Questa settimana un articolo dell’Economist si occupa della questione della cittadinanza. Non però dal punto di vista del modo in cui questa si ottiene, di cui si era discusso qualche tempo fa in Italia dopo la presa di posizione molto netta del presidente della Repubblica in favore della concessione della cittadinanza a tutti i bambini nati in Italia (il cosiddetto ius soli), bensì dal punto di vista di un fenomeno che interessa potenzialmente milioni di persone e di cui gli Stati nazionali continuano a occuparsi poco: quello della doppia cittadinanza. Un tema già piuttosto attuale e destinato a diventarlo sempre di più, perché collegato alle questioni dell’immigrazione, dell’integrazione e in generale centrale in un’epoca fatta da periodi di studio e lavoro all’estero con frequenza superiore al passato.
Il governo olandese ha proposto una legge che limiti la possibilità di concedere una seconda cittadinanza alla popolazione immigrata (secondo l’Economist, nel 2011 ventimila persone hanno ottenuto la cittadinanza olandese essendo già cittadini di un altro Stato) e renda più facile togliere la cittadinanza olandese agli oltre 850.000 cittadini del paese che vivono all’estero, nel caso in cui questi ottengano un secondo passaporto. In alcuni Stati del mondo, di solito quelli con le legislazioni e i procedimenti amministrativi più macchinosi e burocratici, o quelli dove il nazionalismo è un elemento importante della retorica di governo, ottenere la cittadinanza è semplicemente vietato per chi è già cittadino straniero (così ad esempio in oltre metà degli stati africani), o è un permesso speciale che viene concesso in circostanze eccezionali (in un caso simile è stato coinvolto Boris Ivanishvili, un miliardario georgiano con ambizioni presidenziali).
Fino a tempi recenti, continua l’Economist, anche i paesi occidentali tendevano a limitare o vietare del tutto la doppia cittadinanza: il controllo fiscale dello Stato e la possibilità di arruolare i cittadini nell’esercito, così come un mondo in cui gli spostamenti erano meno rapidi e frequenti, causavano il fatto che gli immigrati dovessero solitamente rinunciare alla loro vecchia cittadinanza al momento di prenderne una nuova. Nel 1930 la Lega delle Nazioni, l’organizzazione internazionale antenata dell’ONU, stabilì che “ogni persona deve avere una e una sola nazionalità”, mentre ancora negli anni Novanta un trattato europeo indicava la necessità di limitare al minimo i casi di doppia cittadinanza.
Le soluzioni sono molto varie a seconda del paese del mondo, con una grande diversità di situazioni legislative e in alcuni casi ampi margini di tolleranza. La Germania tende ad accettare le richieste di un secondo passaporto solo per chi proviene dall’Unione Europea, mentre altri paesi sono più permissivi. Dal primo gennaio, in Francia, i nuovi cittadini devono firmare un documento in cui accettano che “non potranno più dichiarare lealtà a un altro paese mentre si trovano sul suolo francese”, mentre gli Stati Uniti (dove vige lo ius soli) la cerimonia di concessione della cittadinanza recita ancora che i nuovi cittadini “rinuncino e abiurino a ogni lealtà e fedeltà a qualsiasi principe straniero”. L’ordinamento statunitense prevede tra l’altro che i cittadini degli Stati Uniti debbano pagare le tasse negli Stati Uniti indipendentemente dalla loro residenza (cioè anche se vivono all’estero). Un caso particolare è poi quello di Israele: molti stranieri di origine ebraica chiedono e ottengono anche la seconda cittadinanza israeliana, grazie alle leggi israeliane che incentivano l’immigrazione, ma lo fanno anche come una sorta di “solidarietà” con Israele, un fenomeno che è parte del complesso rapporto degli ebrei con la loro terra di origine.
Oggi, scrive l’Economist, le riserve del passato trovano meno giustificazioni, e anche i paesi europei che sono restii a modificare le proprie politiche in senso più favorevole alle cittadinanze multiple dovrebbero ricredersi. Le vecchie preoccupazioni (per la sicurezza dello stato, per la partecipazione al servizio militare) sono superate dai tempi in gran parte del mondo. Esistono ancora, scrive il settimanale britannico,
una serie di problemi politici e finanziari che i governi associano a coloro che non sono cittadini: non pagano le tasse, godono dei benefici e mantengono abitudini retrograde dei loro paesi d’origine. E qualche volta lo fanno, è vero. Ma i paesi che vogliono frenare l’evasione fiscale, proteggere la lingua nazionale o scoraggiare abitudini straniere come i matrimoni forzati dovrebbero farlo con leggi specifiche pensate per quei fini, invece di fare affidamento sul potere simbolico della cittadinanza.
Alla questione della cittadinanza si lega quella del diritto di voto, ma in quel campo si è già arrivati a compromessi: già oggi i cittadini di uno stato dell’Unione Europea possono partecipare alle elezioni del parlamento europeo in qualunque stato dell’UE si trovino, e per ragioni storiche il Regno Unito permette di votare alle proprie elezioni legislative anche ai cittadini irlandesi e del Commonwealth residenti nel Regno Unito (i cittadini britannici possono votare in Irlanda in tutte le elezioni tranne quelle presidenziali e i referendum). Con una modifica costituzionale entrata in vigore dal 2006, fortemente voluta da Mirko Tremaglia e molto contestata, i cittadini italiani residenti all’estero possono già votare (come quelli francesi) alle elezioni legislative del loro paese. I cittadini stranieri, al contrario, possono già votare in alcuni paesi per le elezioni delle amministrazioni locali dove vivono (una proposta che in passato è stata timidamente avanzata anche per l’Italia). L’Economist conclude che
la vecchia nozione di cittadinanza secondo cui a un uomo corrisponde una nazionalità sembra datata: più di 200 milioni di persone vivono oggi fuori dai paesi in cui sono nati, ma vogliono ancora viaggiare verso il loro paese d’origine, sposarsi o investire là. […] Piuttosto di rendere i passaporti dei feticci, un approccio migliore sarebbe usare la residenza (e in particolare quella ai fini fiscali) come il criterio principale per decidere i diritti e le responsabilità di un individuo, al posto della cittadinanza. Questo incoraggerebbe la coesione e il senso del dovere, dato che verrebbe dalla decisione consapevole di vivere in un paese e di conformarsi alle sue regole.
– La cittadinanza di chi nasce in Italia
foto: Leon Neal/AFP/Getty Images