L’Iraq federale funzionerà?
La federazione è prevista dalla costituzione e non convince sunniti e sciiti, ma per l'Economist è l'unica soluzione possibile
La nuova costituzione irachena, adottata nel 2005, prevede che l’Iraq sia una repubblica federale, in modo da accontentare almeno in parte i desideri di autonomia dei tre principali gruppi etnico-religiosi dello stato (sunniti, sciiti e curdi) senza che i conflitti esplodano in guerra aperta e il paese sia trascinato nella guerra civile. Ma il ritiro delle forze armate statunitensi, che si è completato il 15 dicembre scorso, e le divisioni all’interno del governo mettono seriamente a rischio il progetto federale.
Chi ha mostrato la maggior capacità di adattamento verso il nuovo sistema federale è stata la minoranza curda, circa il 20% della popolazione, concentrata nel nord ricco di petrolio: dopo gli anni della durissima repressione di Saddam Hussein, che si rese colpevole di azioni di pulizia etnica contro la minoranza curda, tutti i maggiori partiti politici curdi si sono detti favorevoli alla formula federale ancora prima che la nuova costituzione fosse scritta. I curdi sanno che la totale indipendenza della regione curda è impossibile per l’opposizione della Turchia, alle prese con l’indipendentismo curdo nelle sue regioni di confine.
I sunniti e gli sciiti sono meno convinti dalla soluzione. I sunniti sono circa il 20% della popolazione irachena, ma sotto il regime di Saddam Hussein erano l’etnia dominante, costantemente favorita dal dittatore e con i ruoli di comando nel partito Baath. Nel nuovo Iraq federale, temono che la maggioranza sciita, che è il restante 60% della popolazione, li metta costantemente in minoranza e si vendichi di anni di discriminazione.
I timori non sono del tutto ingiustificati, dato che non appena i soldati statunitensi hanno lasciato il paese il primo ministro Nuri al-Maliki, uno sciita, ha mostrato diversi segni di volersela prendere con la minoranza sunnita: pochi giorni fa ha emesso un mandato d’arresto contro il vicepresidente Tariq al-Hashimi, uno dei politici sunniti più importanti del paese, per il suo presunto ruolo nell’organizzazione e nel finanziamento di attentati contro alcuni funzionari sciiti di governo a partire dal 2009. Al-Hashimi si è rifugiato nel nord curdo, dove proprio l’ordinamento federale rende difficile al governo centrale di eseguire l’arresto, ed è diventato nei fatti un esiliato interno. Come scrive l’Economist, “pochi politici iracheni sembrano in grado di mettere la nazione al di sopra della setta religiosa o dell’etnia. I diritti delle minoranze non sono rispettati. Prevale l’intolleranza. Occupato dagli americani o no, l’Iraq manca tristemente del senso dell’unità nazionale.”
Eppure l’esperimento del federalismo potrebbe essere l’unico in grado di far funzionare la nazione, nonostante al momento il sistema sia ancora ben lontano dall’essere funzionante: l’Iraq è diviso in una ventina di entità regionali che ricalcano le divisioni etnico-religiose, con una maggioranza curda nel nordest, una sunnita nel centro-ovest e una sciita a sud. L’unica regione autonoma relativamente funzionante è quella curda, che aveva un certo grado di autonomia anche sotto Saddam, mentre la formazione delle altre regioni, oltre alla precisazione delle loro competenze, non è ancora stata terminata.
I motivi di ottimismo sono pochi, ma ci sono: le elezioni del marzo 2010 sono state segnate dalla violenza, ma si sono svolte in modo relativamente corretto, i giacimenti di petrolio sono di nuovo operativi, e con la partenza degli americani (che hanno mantenuto solo 4.000 soldati, dei 170.000 che avevano nel paese nel momento di massimo impegno militare) l’Iraq ha sicuramente una larga sovranità. La violenza rimane troppo alta per un paese ufficialmente in pace, con i bellicosi proclami del politico filoiraniano e violentemente antioccidentale Muqtada al-Sadr, e le divisioni lungo le vecchie linee che Saddam aveva tenuto insieme con un regime dittatoriale sembrano sempre sul punto di esplodere, ma la soluzione federale, conclude l’Economist, è l’unica che può garantire un futuro al paese.
foto: Wathiq Khuzaie /Getty Images