Il Giappone ricostruisce, ma non cambia
Newsweek racconta che lo tsunami non ha cambiato il modo di fare politica nel paese, con le sue estreme cautele e lentezze
L’11 marzo 2011, un terremoto e lo tsunami successivo devastarono la costa nordorientale del Giappone, causando circa 15mila morti e 5mila dispersi, oltre a enormi danni materiali e al grave danneggiamento dell’impianto nucleare di Fukushima-Daiichi. La risposta dell’intero paese, dai semplici cittadini ai governanti, fu quella di fare appello alla memoria storica del Giappone, che in passato non si era lasciato piegare dai disastri naturali o bellici, e di avviare subito la ricostruzione. Bill Emmott su Newsweek racconta come stanno andando le cose a quasi dieci mesi dal disastro, e quello che lo tsunami non è riuscito a cambiare nelle tradizioni politiche e di governo del Giappone.
Le prime fasi della ricostruzione sono state molto veloci, dalla rimozione dei detriti alla costruzione di alloggi temporanei per gli sfollati alla riparazione delle infrastrutture principali (con alcune immagini che diventarono celebri in tutto il mondo). Le industrie giapponesi di componenti elettronici e per le autovetture hanno ricominciato a funzionare molto velocemente, almeno in parte.
Per quanto possa suonare cinico, la fase di ricostruzione che si è avviata l’11 marzo è stata vista anche come un’opportunità: quella di fare le riforme che da oltre vent’anni si aspettano nel paese, per cambiare almeno in parte un quadro economico e sociale bloccato e bisognoso di liberalizzazioni e cambiamenti. Ma come scrive Emmott, la politica giapponese sta dando prova in questi mesi di non essere in grado di cambiare, continuando lungo la sua tradizione di scarsa unione, di lotta tra le fazioni e di ostilità al cambiamento.
Un’altra tradizione giapponese, da molti anni, è quella di cambiare costantemente guida politica: a settembre Naoto Kan è stato sostituito da un ex ministro delle finanze, Yoshihiko Noda, una mossa che segna, continua Emmott, “un ritorno al vecchio stile giapponese della leadership, che era tipico negli anni Novanta ma anche nei più frizzanti anni Sessanta e Settanta: un politico abbastanza di basso profilo e che ricerchi il consenso come primo ministro, uno che i leader del partito non vogliono diventi troppo in vista, troppo potente o troppo carismatico”.
Noda, infatti, ha affrontato le decisioni più difficili e i problemi più gravi con spirito cauto e temporeggiatore, nella maggior parte dei casi rimandando il momento delle scelte più dure. In primo luogo per quanto riguarda le finanze del paese, che devono fare i conti con un debito pubblico doppio rispetto al PIL (anche se per quasi il 90%, caso unico tra i paesi avanzati che ne garantisce la solidità, in possesso degli stessi giapponesi) e con i nuovi costi della ricostruzione. Dopo che i primi annunci di interventi decisivi, come l’aumento dell’equivalente della nostra IVA, attualmente al 5%, sono stati accolti con poco favore dall’opinione pubblica, Noda ha cominciato a diventare più vago nell’indicare gli impegni, rimandando l’aumento al 2014 o al 2015.
Poi c’è la questione dell’energia: il paese deve ideare un nuovo piano energetico, in un momento in cui la popolazione è diventata improvvisamente e comprensibilmente contraria all’energia nucleare che, fino a prima dello tsunami e del disastro dell’impianto di Fukushima, contava per circa il 30% della produzione nazionale di energia elettrica. Il governo ha ritardato a lungo il rientro in funzione dei reattori, approfittando delle pause necessarie per la manutenzione ordinaria, ma deve fare i conti con un’opposizione popolare che il 19 settembre scorso ha organizzato una manifestazione di circa 30.000 persone contro l’energia nucleare a Tokyo, una delle proteste politiche più partecipate da parecchi anni in Giappone. Finora la strategia del governo sembra essere quella di aspettare che l’ostilità dell’opinione pubblica verso il nucleare diminuisca.
Per parte loro, i grandi gruppi industriali (e non solo le aziende coinvolte nella produzione del nucleare) sono contrarie all’abbandono del nucleare, che sostengono causerà l’adozione forzata di alternative più costose, come le energie rinnovabili o i combustibili fossili. E ancora una volta, quindi, la questione del piano energetico è stata rimandata.
Uno dei pochi campi dove c’è stato qualche cambiamento, scrive Emmott, è quello della politica estera. Noda si è sensibilmente riavvicinato agli Stati Uniti, che in patria avevano causato un dibattito piuttosto aspro sul destino della grande base americana sull’isola di Okinawa. Dopo l’11 marzo gli Stati Uniti hanno fornito un piano di assistenza molto generoso, l’Operazione Tomodachi (la parola giapponese per “amico”) e i dibattiti recenti sono stati messi da parte.
A metà novembre Noda ha annunciato che il suo paese entrerà nei negoziati, guidati dagli Stati Uniti, per una maggiore libertà del commercio tra gli stati del Pacifico, un accordo chiamato Trans-Pacific Partnership. Ma anche in questo caso Noda deve fare i conti con la via giapponese al governo, che si muove solo quando ha ottenuto il consenso più ampio possibile, a costo di non muoversi del tutto. In Giappone le circoscrizioni rurali hanno un peso molto alto nel sistema elettorale, più ampio di quello che hanno in termini di popolazione relativa. E i gruppi di pressione degli agricoltori sono contrari a una maggiore libertà commerciale, che molto probabilmente ne toccherebbe pesantemente i guadagni. Di conseguenza, Noda non ha voluto promettere esplicitamente agli Stati Uniti che accetterà che il nuovo accordo si occupi anche dell’importante capitolo del commercio agricolo.