Il problema con i 500 euro
L'inchiesta di Carlo Bonini sull'evasione fiscale torna a parlare della banconota che circola sempre di più ma che non usa quasi nessuno (ufficialmente, almeno)
La banconota da 500 euro è da molti anni al centro di discussioni e polemiche. Molte persone non ne hanno mai usata una, la si vede pochissimo in giro, quasi niente, eppure secondo i dati ufficiali ne circolano molte. La sua esistenza fa a pugni con i dichiarati e praticati impegni a scoraggiare l’uso del denaro contante, specie per grossi pagamenti. Da tempo poi è nota la grande popolarità che questa banconota gode tra criminali e persone addette al riciclaggio di denaro. Qualche anno fa Manuel Estapé Tous sulla Vanguardia, tradotto in italiano da Presseurop, aveva fatto qualche conto: un milione di dollari in biglietti da 100 pesa quasi dieci chili, mentre invece l’equivalente in biglietti da 500 euro pesa meno di due chili. La banconota da 100 dollari – 76 euro, più o meno – è quella di taglio più alto, e nel 1998 un dirigente del ministero del Tesoro americano espresse preoccupazione riguardo il suo uso da parte di criminali.
Oggi su Repubblica la questione delle banconote da 500 euro è affrontata nuovamente da Carlo Bonini, nell’ambito di un interessante e documentato articolo sullo stato dell’arte nell’evasione fiscale: cifre, metodi, informazioni, dati. Le banconote da 500 euro fanno la loro parte e sono sempre di più, spiega Bonini: “come documentano i dati della Banca d’Italia, il numero di banconote da 500 circolanti all’interno dell’Unione Europea, è passato dai 167 milioni di pezzi del 2002, ai 600 milioni di pezzi del novembre di quest’anno”.
VIA DALL’ITALIA. In qualsiasi modo. In questo anno che si sta chiudendo, la Grande Fuga dei capitali all’estero – e parliamo soltanto di quella accertata dalla Guardia di Finanza – ha raggiunto gli 11 miliardi di euro, più o meno un quarto dell’intera base imponibile evasa individuata dai controlli (46 miliardi). Di questi 11 miliardi, il 26 per cento è stato sottratto al Fisco attraverso società con sede legale all’estero e attività produttive stabili ma occulte nel nostro Paese. Il 18 per cento con l’antico strumento elusivo della cosiddetta “estero-vestizione” di società e persone fisiche, lo specchietto per le allodole necessario a fissare fraudolentemente oltre confine la residenza fiscale di chi le tasse dovrebbe pagarle in Italia. Il 17 per cento, con quel gioco di vasi comunicanti detto “transfer pricing”, la cessione di quote di reddito tra consociate con la cessione di beni o prestazione di servizi, per concentrare gli utili soggetti a tassazione sulla società del gruppo che gode di un regime fiscale estero di favore. Il 39 per cento, con “altre manovre evasive”. Ma c’è di più. Dal pozzo nero della nostra memoria degli anni ’70 e ’80 riaffiorano gli spalloni. Riempire una ventiquattr’ore destinata oltre frontiera con banconote da 500 euro (riescono a starcene fino a 12 mila pezzi, per un valore di 6 milioni di euro) è tornata ad essere un’opzione ricorrente. E, per quanto empirici, i dati dei sequestri di valuta negli ultimi tre mesi ai valichi normalmente utilizzati dagli spalloni (Ponte Chiasso e gli aeroporti di Malpensa e Fiumicino) crescono fino al 50 per cento rispetto alla vigilia dell’estate. Con picchi significativi tra ottobre e novembre scorsi, le ultime settimane dell’avventura berlusconiana, quando il Paese si è trovato dinanzi all’abisso del default (in questo periodo, soltanto al confine svizzero, sono stati sequestrati 2 milioni e 600 mila euro, mentre a Malpensa, si sono toccati i 3 milioni). La nuova stagione del governo Monti e la stretta fiscale sono evidentemente percepite come una minaccia. “E’ ben possibile – chiosa il generale Bruno Buratti, comandante del III reparto Operazioni della Guardia di Finanza – che l’esportazione illegale di valuta riprenda a crescere con dati statisticamente significativi”.
L’investigatore la dice come fosse un eccentrico paradosso. “Ricorda l’Hawala? Dopo l’11 Settembre, il mondo scoprì che Al Qaeda e il network del radicalismo islamico raccoglievano e trasferivano contante tra i quattro angoli del pianeta con una rete informale di mediatori che non lasciava traccia né elettronica, né cartacea. I mediatori erano legati tra loro da un sistema di compensazioni che rendeva superfluo il movimento del contante. E dunque quegli stessi mediatori, proprio in ragione delle compensazioni, potevano rendere disponibile ai loro clienti qualsiasi cifra a destinazione senza che un solo euro o dollaro si fosse mosso. Bene, oggi funziona così in Italia per molti esportatori illegali di valuta. L’Hawala è diventato un italianissimo strumento di “spallonaggio”. Il denaro non è più di Mohammed o di Kalil. Ma del dottor Mario, del signor Luigi”. Semplice a dirsi. E, a quanto pare, anche a farsi. Perché per chi vuole far sparire denaro oltre confine o farne rientrare quando serve, è sufficiente appoggiarsi a organizzazioni in cui il mediatore italiano A (avvocato d’affari o commercialista che sia), chiede al suo reciproco professionista svizzero B di depositare presso un conto elvetico un cifra X per conto del suo cliente italiano signor Rossi. La somma depositata in Svizzera uscirà dalle disponibilità del mediatore B e dunque si muoverà solo all’interno dei confini di quel Paese, regolarmente. Ma quella somma, in realtà, da quel momento sarà nella esclusiva disponibilità del signor Rossi, cittadino italiano, che l’avrà consegnata in contanti e per equivalente, in Italia, ad A, il suo mediatore. A e B, a quel punto, regoleranno “in compensazione” quella somma. Come fossero due banche. Le “commissioni” per questo “spallonaggio” silenzioso, che non sposta fisicamente denaro ma lo materializza a destinazione, frequente per chi muove in nero fino a 1, 2 milioni di euro, oscillano tra il 2 e il 5% e sono pagate “alla fonte”. Più convenienti di un vecchio “scudo” alla Tremonti. E con un solo nemico: le indagini di polizia giudiziaria. Quelle fatte di intercettazioni, pedinamenti, fonti confidenziali.
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foto: ADRIAN DENNIS/AFP/Getty Images