La fine dell’Unione Sovietica
Succedeva a Natale vent’anni fa, le foto e la storia di quei giorni
di Augusto Come
Il giorno di Natale di vent’anni fa, senza celebrazioni e quasi di nascosto, si ammainava sulle mura del Cremlino la bandiera rossa con la falce e il martello: era la fine di un’era. L’Unione delle Repubbliche Socialistiche Sovietiche, che da speranza di un mondo più giusto si era trasformata in uno dei più perversi sistemi totalitari della storia dell’umanità, aveva cessato di esistere.
Pochi minuti prima, Michail Gorbaciov aveva presentato le sue dimissioni. A capo dell’URSS dal 1985, aveva scommesso sulla possibilità di riformare radicalmente il sistema sovietico. Nel suo discorso d’addio, l’iniziatore della glasnost e della perestrojka, spossato e inquieto, prende atto della sua sconfitta: invece di guarire il paziente, i suoi tentativi di riforma avevano innescato un processo di disgregazione che avevano portato, in pochi anni, al crollo definitivo. Eppure all’inizio del 1990, malgrado tutto, malgrado l’erosione del blocco comunista, con le rivoluzioni di velluto e la caduta del Muro di Berlino, l’Unione Sovietica, per quanto acciaccata, non sembrava dar segni di cedimento. Certo, i vari nazionalismi si erano risvegliati da tempo e la società era tutta un ribollire, ma erano in pochi a immaginarsi un mondo senza URSS.
Sono le repubbliche baltiche a fare scoppiare la crisi finale. Questi paesi, annessi a seguito del patto Molotov-Ribbentrop del 1939, si erano da sempre sentiti culturalmente e politicamente estranei all’Unione Sovietica. La piccola Lituania è la prima a sfidare apertamente l’URSS dichiarandosi indipendente nel marzo 1990, e trova il potere centrale totalmente impreparato. Il governo reagisce imponendo pesanti sanzioni economiche, senza tuttavia riuscire a ottenere una marcia indietro. Si tenta il pugno di ferro. Il 13 gennaio del 1991 truppe speciali sovietiche assaltano il parlamento lituano e aprono il fuoco sulla folla causando 14 morti e 600 feriti. A Mosca più di 300mila persone si radunano, in segno di solidarietà con le vittime, per protestare contro la repressione. È ormai chiaro che Mosca non è in grado di impedire con la forza l’indipendenza delle Repubbliche. Seguendo l’esempio lituano, Lettonia ed Estonia si dichiarano a loro volta indipendenti. L’Unione Sovietica comincia a perdere pezzi.
A marzo, in un disperato tentativo di proteggere l’integrità territoriale del paese, Gorbaciov indice un referendum sul mantenimento dell’URSS “sottoforma di una rinnovata federazione di repubbliche sovrane ed eguali”. Nonostante il boicottaggio di Armenia, Georgia, Moldavia e delle tre repubbliche baltiche, che si rifiutano di partecipare al referendum, l’iniziativa è un successo. Il “sì” vince in tutte le nove repubbliche con oltre il 70 per cento dei voti. Si aprono subito dei negoziati per trovare un compromesso tra centro e periferia, capace allo stesso tempo di salvare l’Unione e soddisfare le aspirazioni autonomiste delle repubbliche.
Ciononostante il processo di disintegrazione continua. Boris Eltsin è eletto a scrutinio universale Presidente delle Repubblica Russa. Forte del suo mandato popolare, moltiplica gli attacchi al potere centrale. Dopo aver riconosciuto l’indipendenza dei paesi baltici, dichiara la preponderanza del diritto della Repubblica Russa sul diritto federale e dota il governo di un proprio Ministro degli Esteri e di servizi di sicurezza.
La fazione conservatrice, pur di preservare l’URSS, decide di giocarsi il tutto per tutto. Il 19 agosto un gruppo di golpisti, tra i quali il capo del KGB, il presidente del Concilio di Sicurezza e i ministri della Difesa e dell’Interno, proclamano lo stato d’emergenza e dichiarano Gorbaciov incapace di agire. Il Presidente è tenuto prigioniero nella sua dacia in Crimea e le strade di Mosca vengono invase da carri armati, esercito e truppe speciali. Eltsin, deciso a salvare la sua rivoluzione, monta su un carro armato in sosta davanti al Parlamento. Sventolando il tricolore russo, condanna il colpo di Stato e aizza i cittadini a battersi per la loro libertà. In difesa di Eltsin accorrono migliaia di persone: l’esercito si rifiuta di aprire il fuoco sui manifestanti e il colpo di Stato fallisce miseramente.
(Il colpo di stato che fece crollare l’Unione sovietica)
La popolarità di Eltsin è ormai alle stelle. Nella foga, il futuro presidente della Federazione Russa sospende il Partito Comunista, infliggendo un colpo mortale a Gorbaciov, a cui non resta che dimettersi dalla carica di Segretario Generale del PCUS. Abbandonato da tutti e privato del suo partito, Gorbaciov continua la sua battaglia solitaria senza più speranze.
Il “putsch di agosto” accelera il processo di disintegrazione. Le dichiarazioni d’indipendenza delle varie repubbliche si susseguono rapidamente: Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Azerbaigian, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Armenia, Turkmenistan, Kazakistan. L’8 dicembre, Eltsin e i presidenti di Bielorussia e Ucraina si pronunciano sulla fine dell’URSS. Al suo posto viene creata un’organizzazione internazionale, la Comunità degli Stati Indipendenti, aperta a tutte le ex repubbliche sovietiche.
Il 25 dicembre del 1991 Gorbaciov si dimette da Presidente dell’Unione Sovietica. Nel suo discorso d’addio ribadisce il suo attaccamento alla patria: “In questo momento così difficile, (…) in cui un grande Stato cessa di esistere, resto fedele ai quei principi che mi hanno ispirato a difendere l’idea di una nuova Unione”. Gorbaciov lascia il suo posto con inquietudine. “Il vecchio sistema è crollato prima che il nuovo abbia potuto mettersi in moto” – avvisa. “Cambiamenti radicali, in un paese tanto grande e con una tal eredità, non possono prodursi senza dolore, senza difficoltà”.
Il giorno dopo il Soviet Supremo annuncia ufficialmente la fine dell’Unione Sovietica. Se si chiude così uno dei capitoli più concitati della storia russa, se ne apre un altro non meno turbolento, quello della transizione. Una transizione che sarà drammaticamente segnata da quel “dolore” e quelle “difficoltà”, predetti da Gorbaciov, e che, a marce alterne, dura ormai da vent’anni.