Le colpe dei manifestanti in Egitto
Un contestato articolo su Foreign Policy accusa il movimento di Piazza Tahrir di aver gestito male la protesta e di avere responsabilità nella sua degenerazione violenta
Steve A. Cook è un esperto di affari internazionali e del mondo arabo, collabora con il Consiglio sulle relazioni estere degli Stati Uniti e da poche ore ha pubblicato su Foreign Policy un articolo sugli ultimi giorni di scontri al Cairo. Nel suo racconto Cook spiega che le violenze non sono state solamente causate dell’esercito, ma anche degli stessi manifestanti che in molti casi si sono ritrovati per strada con il solo scopo di compiere atti violenti. Il suo articolo sta circolando molto online e ha ricevuto messaggi di approvazione ma anche forti critiche attraverso i social network.
L’ultimo affronto alla promessa rivoluzionaria di Tahrir è arrivato nell’ultimo fine settimana, nell’area sud della piazza dalle parti di via Qasr al-Aini, dove si trovano gli uffici governativi e del Parlamento dell’Egitto. Lì, la polizia e i manifestanti si sono scontrati battagliando col lancio di pietre, vetri, ferraglia e di molotov. A un certo punto, un soldato egiziano sul tetto di uno dei palazzi governativi si è messo a orinare sui manifestanti che si trovavano al di sotto. (Il simbolismo di un simile gesto è stato chiaro a tutti.)
Una delle cause principali delle violenze, spiega Cook, è stata la decisione dei militari di disperdere un piccolo gruppo di manifestanti che sostavano davanti al palazzo del governo. L’episodio e gli scontri che ne sono seguiti hanno dimostrato come l’Egitto sia entrato in una fase diversa, dove la violenza è stata normalizzata e dove sono tornate a esserci scelte politiche poco efficaci e «squallide».
Nei giorni del fine settimana ci sono state centinaia di feriti e almeno dieci morti, ma tutto quello che è avvenuto in piazza non aveva sostanzialmente un senso né un preciso obiettivo finale. Chi è arrivato in piazza Tahrir, dopo aver appreso che i soldati stavano preparando lo sgombero davanti ai palazzi governativi, lo ha fatto nella maggior parte dei casi per combattere. Dopo i soprusi subiti nelle ultime settimane, con altre decine di morti, molti manifestanti erano determinati ad avere qualcosa indietro, spiega Cook.
In via Qasr al-Aini echeggiavano le urla “Morte al comandante militare” – un riferimento al generale Mohamed Hussein Tantawi, il capo del Consiglio supremo delle forze armate – e non le più incoraggianti urla “Libertà! Libertà!” che si potevano udire in quei canyon di cemento durante la rivolta di piazza Tahrir di gennaio. Come sono arrivati gli egiziani a questa versione deformata, farneticante e bizzarra di Tahrir Square? È facile dare la colpa al Consiglio, come hanno fatto in molti, ma c’è da dire che i generali sono anche stati molto di aiuto. Ciascuno dei principali protagonisti politici dell’Egitto – i soldati, i gruppi rivoluzionari, gli islamisti e i liberali – hanno probabilmente contribuito all’attuale impasse politico e al collasso economico attraverso un mix di incompetenza, narcisismo e slealtà. Questo ha lasciato una società con forti tensioni, dove un piccolo incidente stradale può diventare una protesta violenta, dove i soldati picchiano senza remore le donne, e dove i manifestanti bruciano i palazzi che contengono alcuni dei tesori storici e culturali dell’Egitto.
Nei giorni della rivolta che portò alle dimissioni di Hosni Mubarak, l’esercito era riuscito a gestire una situazione molto complicata e potenzialmente esplosiva, evitando che le violenze diventassero la norma. Negli ultimi mesi, i vertici militari si sono invece dimostrati incapaci di gestire la transizione democratica del paese. Non hanno contatti chiari con la popolazione e, spiega Cook, agiscono senza avere piani e idee precisi su che cosa fare, compromettendo la stabilità sociale nel paese.
Quando il movimento rivoluzionario aveva un seguito praticamente globale e grandi carte da giocare, il Consiglio ha cercato di esaudire le sue richieste. Ora che a protestare sono meno persone, i vertici militari sono convinti di rappresentare una maggioranza silenziosa che immaginano sia contraria alle nuove proteste. Il problema è che in realtà i militari non hanno idea di che cosa pensino gli egiziani che, per la maggior parte, non manifestano più.
Dal canto loro, i manifestanti hanno perso l’occasione di strutturare meglio il loro impegno dopo i risultati ottenuti con la rivolta. Per mesi hanno dimostrato di disprezzare il processo politico che si era avviato nel paese dopo la fine di Mubarak, cercando di riportare il confronto nuovamente in piazza e non in sedi più democratiche e consone come quelle per le elezioni del nuovo Parlamento. Sono stati organizzati quasi venti venerdì di protesta in primavera ed estate, ma senza che ci fossero richieste chiare e precise. Era una sorta di “io manifesto e quindi sono”, spiega Cook, una protesta continua che non ha portato alla costruzione di nulla di nuovo e ha solamente consentito a movimenti e partiti che già esistevano sotto Mubarak di organizzarsi meglio.
Se i rivoluzionari e i loro sostenitori ora sono sconvolti dal fatto che gli islamisti – sia i Fratelli Musulmani sia i salafiti – sono destinati a dominare sull’Egitto post-rivoluzionario, devono voltarsi indietro e guardare ciò che hanno fatto negli ultimi undici mesi. Indubbiamente, la loro capacità di comprendere l’opinione pubblica egiziana è pessima quanto è pessima quella dei militari.
Da tutti questi elementi, conclude Cook, derivano il caos degli ultimi giorni in piazza Tahrir e l’incapacità di governare una pacifica transizione democratica. Si è innescato un meccanismo che ha portato alla creazione di una «Tahrir mostro di Frankenstein» dove non ci sono una chiara leadership, principi morali, una causa comune e un senso di decenza. «Gli egiziani sono nei guai e non c’è nessuno che possa davvero aiutarli. Dopo queste ondate di violenza capita spesso sentire qualche egiziano dire: “Questo non è l’Egitto”. È arrivato il momento di dimostrarlo.