Le nuove Guantánamo, negli Stati Uniti
Da un po' le autorità statunitensi preferiscono chiudere i detenuti per terrorismo nelle prigioni federali, per vari motivi
Il numero di detenuti per terrorismo scende a Guantánamo, ma cresce nelle altre prigioni americane. «Un arcipelago di carceri nascoste nel paese», scrive il New York Times, nelle quali vengono create condizioni simili a quelle del carcere cubano che Obama aveva promesso di chiudere: settori occupati in maggioranza da detenuti musulmani, spesso in isolamento, controlli strettissimi e condanne generalmente molto lunghe. Dopo il picco nel 2003, il numero di detenuti a Guantánamo è sceso progressivamente da 700 a 171. Nel contempo però è salito progressivamente anche il numero di condannati per terrorismo internazionale nelle carceri federali di massima sicurezza (come la Supermax a Florence, in Colorado), anche se lontano da quel picco: da poco più di 50 nel 2001 si è passato ai 269 di oggi (che sarebbero 362 se si contano anche i detenuti legati al terrorismo domestico).
Ci sono diverse ragioni che spiegano questo cambiamento di rotta. Innanzitutto, Guantánamo è un luogo che attira ancora oggi molte critiche da parte degli attivisti per i diritti umani. La settimana scorsa, per esempio, c’è stata l’ultima polemica: il Senato statunitense ha approvato il National Defense Authorization Act, che in pratica permetterebbe alle autorità militari di detenere qualsiasi cittadino americano senza limiti di tempo, se sospettato di associazione terroristica internazionale o di attentati contro gli Stati Uniti. Ora il disegno di legge potrebbe essere approvato anche dalla Camera dei Rappresentanti, ma Obama ha già detto che in ogni caso porrà il veto.
Fonte: The New York Times
Inoltre, la giustizia militare americana si è spesso dimostrata inefficiente ed eccessivamente costosa per le casse del governo. Un detenuto a Guantánamo costa allo Stato circa 800mila dollari all’anno, mentre nelle prigioni federali si parla di soli 25mila dollari. Le pene, tuttavia, rimangono più o meno le stesse. Chi è accusato di terrorismo rischia statisticamente di rimanere molto più tempo in carcere, scrive il Times. Anche chi viene giudicato colpevole di reati solo marginali nell’ambito del terrorismo, spesso viene condannato ad almeno dieci anni di carcere per via di un preciso programma di “prevenzione” da parte delle autorità statunitensi, le quali pensano che una condanna più lunga del normale sia un ottimo deterrente per i potenziali recidivi. Altre volte, invece, sono le false testimonianze a mettere nei guai gli imputati, come capitato a Yassin M. Aref, un curdo-iracheno immigrato negli Stati Uniti. Le testimonianze dirette sono i principali elementi di indagine dell’FBI, alle quali, dal 2001, si è affidata nel 40 per cento dei casi.
C’è un altro motivo. Dal 2001 circa 300 prigionieri hanno scontato brevi pene e sono stati scarcerati dal carcere di Guantánamo (la metà di essi è stata espulsa). Di questi, però, circa il 25 per cento è recidivo ed è rientrato nelle fila del terrorismo internazionale, come accaduto al cittadino kuwaitiano-canadese Mohammed Mansour Jabarah, che addirittura è diventato temporaneamente informatore dell’FBI per poi tradire gli agenti americani – ed essere condannato all’ergastolo. Coloro che vengono rilasciati dalle prigioni federali, invece, molto raramente ritornano a compiere reati dello stesso tipo, secondo le statistiche, anche perché sono seguiti a vista dall’FBI. Ma di più non si riesce a sapere. Il Bureau of Prisons statunitense, infatti, non permette alla stampa di avere rapporti con i suoi impiegati, né con i detenuti nelle carceri federali per terrorismo. I quali, anche quando escono di prigione, sono molto restii a parlare.
Foto: AP/Brennan Linsley, File