L’accordo di Durban
Il rinnovo di Kyoto, un "Fondo Verde" per i paesi più poveri e un nuovo piano contro le emissioni entro il 2020 (troppo tardi?)
I delegati riuniti a Durban per la 17esima Conferenza mondiale sul clima organizzata dall’Onu (COP17) hanno raggiunto nella notte un’intesa «storica», secondo il presidente della conferenza e ministro degli esteri sudafricano Maite Nkoana-Mashabane. È stato un compromesso in extremis, visto che i lavori si sarebbero dovuti concludere teoricamente venerdì. Ma i rappresentanti dei vari paesi hanno negoziato per altre 36 ore, fino alle 4.30 (ora italiana) di domenica.
L’accordo prevede innanzitutto il rinnovo del protocollo di Kyoto, che scade il 1 gennaio 2013. A Durban, invece, si è stabilito che debba durare fino ad un massimo di altri cinque anni, anche se Russia, Canada e Giappone non hanno accettato questa decisione. Ma soprattutto, la Conferenza ha deciso che tutti i paesi dovranno arrivare, entro il 2015, a un accordo più severo contro le emissioni di carbonio. Il piano era stato inizialmente definito come una vera e propria roadmap, con date e impegni stabiliti con precisione, per la quale hanno insistito l’Unione Europea, le piccole isole dell’AOSIS (Alliance of Small Island States, per la maggior parte nel Pacifico e nella zona caraibica) e il blocco dei paesi meno sviluppati, i cosiddetti LDC (Least Developed Countries).
Ma proprio i termini e le scadenze stabilite dalla roadmap hanno rallentato molto i lavori. La Cina e soprattutto l’India, infatti, erano contrarie perché consideravano l’accordo troppo vincolante a livello legale. Per questo, attraverso la mediazione del Brasile, si è raggiunta l’intesa su una dicitura più complessa di quella iniziale, ossia “soluzione concertata avente forza di legge”, ma che non cambia di molto la sostanza. Una volta stabilito da tutti i paesi, il nuovo piano dovrà essere messo in pratica dal 2020.
La Conferenza ha raggiunto inoltre un accordo sul cosiddetto “Fondo verde” per il clima, che dovrebbe aiutare le nazioni povere a combattere il surriscaldamento globale. Ancora non è chiaro come verranno finanziati i 100 miliardi di dollari previsti dal Fondo, ma tutti i paesi hanno approvato la sua istituzione.
I delegati non tornano dunque a mani vuote da Durban, anche se gli accordi restano ancora abbastanza vaghi. Secondo Michael Jacobs, dell’istituto di ricerca Grantham di Londra per i cambiamenti climatici, «siamo ancora sulla strada verso il surriscaldamento di 4 gradi della Terra» ma è stato comunque un buon risultato «costringere tutti i paesi a migliorare le loro politiche ambientali entro il 2015».
Inoltre, la Conferenza ha mostrato le spaccature già viste in passato, con i paesi emergenti (Sudafrica, Brasile, India e Cina) che rimproverano ai paesi industrializzati duecento anni di inquinamento, per i quali non vogliono essere loro a pagare le conseguenze. Tuttavia, dopo Durban lo scenario è cambiato, almeno in linea di principio. Infatti, mentre secondo il Protocollo di Kyoto i paesi in via sviluppo non sono legalmente obbligati a ridurre le emissioni, ora dovranno rispettare le regole come quelli sviluppati, anche se solo dal 2020.
Nella foto, da sinistra: Christiana Figueres, Segretario Esecutivo dell’UNFCCC, e Maite Nkoana-Mashabane (RAJESH JANTILAL/AFP/Getty Images