La situazione al Cairo
Siamo alla quarta notte di battaglia, i militari non hanno accettato le dimissioni del governo
I manifestanti che avevano occupato piazza Tahrir contro Mubarak lo scorso gennaio sono tornati in massa venerdì per protestare contro il governo dei militari accusato di ostacolare il processo di transizione a un nuovo potere civile. I soldati sono intervenuti a disperderli dopo poche ore ma hanno trovato grandi resistenze e da tre giorni proseguono i combattimenti con lacrimogeni, bastoni, pietre, molotov e armi da fuoco tra militari e dimostranti al Cairo e in altre città dell’Egitto: per ora sono 33 i civili morti negli scontri e più di 1300 le persone ferite.
(il video delle bastonate in piazza Tahrir)
Contro la gestione della situazione ieri si era dimesso il ministro della Cultura e oggi tutto il governo e il primo ministro Essam Sharaf hanno presentato le dimissioni alla giunta militare che, dopo Mubarak, governa di fatto l’Egitto. In un primo momento si è diffusa la notizia che il Consiglio militare avesse accettato le dimissioni, ma il ministro dell’Informazione egiziana Osama Heikal l’ha smentita in una dichiarazione alla tv pubblica: sembra che il Consiglio militare voglia trovare un nuovo accordo sul primo ministro prima di accettare le dimissioni di Sharaf. Rimane la data delle elezioni parlamentari fissata per il 28 novembre.
Nella notte tra lunedì e martedì si trovano in piazza Tahrir ancora 10 mila persone che hanno accolto la notizia urlando «Allah è grande» ma che non sembrano intenzionate a fermare la protesta fino a quando il Consiglio supremo militare non farà un passo indietro e trasferirà completamente il potere a un governo civile.
(le foto degli scontri al Cairo)
La manifestazione inizialmente era stata indetta dai Fratelli Musulmani, ma subito si sono uniti tutti gli schieramenti politici egiziani. La nuova occupazione è stata avviata dalla bozza di riforma costituzionale presentata dal governo che nega la possibilità di controllare il bilancio dell’esercito e soprattutto le sue azioni militari, prevedendo addirittura punizioni per chiunque ne critichi l’operato. Questo divieto ha causato negli ultimi mesi migliaia di arresti tra blogger e oppositori del nuovo regime.