Il guaio con l’UdC
Siano vere o no le accuse sulla tangente di 200 mila euro per Casini, quel partito ha un problema forse irrisolvibile
È innegabile che una cosa sia davvero successa, di quelle roboantemente annunciate dai leader dell’UdC un anno e mezzo fa, in un convegno a Todi: la ricerca di nuove alleanze e il tentativo di creazione di un’aggregazione di centro più ampia ha avuto un’accelerazione e ha raggiunto tappe rilevanti del suo percorso con la creazione del cosiddetto terzo Polo.
Ma è altrettanto innegabile che le contemporanee promesse di trasformare l’UdC in un’altra cosa, rispetto al partito erede di quel che è via via rimasto di pezzi della vecchia DC e sistema di gestione di piccoli poteri privo di articolate visioni politiche o progetti, si sia invece del tutto perso.
Fine dell’Udc. Azzeramento di tutte le cariche. Sondaggio su Internet per scegliere il nuovo nome e il nuovo simbolo di quello che per ora viene chiamato Partito della nazione. Via al tesseramento e costituente a fine anno o, al massimo, a inizio 2011.
Il tema è interessante e attuale, ora che le pesantissime accuse dell’inchiesta su Finmeccanica raccontano di un concreto fatto di corruzione – l’unico emerso, finora, e tutto da dimostrare – che riguarderebbe il leader dell’UdC Pierferdinando Casini, che da una torbida immagine di traffici spesso illeciti accumulata dal suo partito negli anni è stato sempre capace di tenersi fuori.
Le accuse di Tommaso Di Lernia al momento sono tutt’altro che granitiche. A quanto riferiscono i giornali, avrebbe detto di avere consegnato il 2 febbraio 2010 200 mila euro al tesoriere dell’UdC invece che a Lorenzo Cesa e Pierferdinando Casini perché – disse loro il tesoriere Giuseppe Naro – avevano quel giorno un voto in parlamento (lo avevano, in effetti): ma al tempo stesso l’appuntamento risulterebbe segnato sull’agenda di Di Lernia col nome del tesoriere Giuseppe Naro e non di Casini e Cesa. E l’onorevole Roberto Rao dell’UdC, già portavoce di Casini, ha negato che Casini abbia un ufficio nella sede dell’UdC.
Ma queste obiezioni di fatto, se sono fondate, sono più fragili ancora delle accuse di Di Lernia e di Lorenzo Cola. Casini ha ragione a dire che se ne devono occupare i giudici, sul piano processuale. Ma sul piano politico se ne deve occupare lui, e il suo partito: ovvero lui. Non stiamo parlando di un incidente di percorso superabile, stiamo parlando di un’accusa che racconta del grande problema dell’UdC.
È indubbio che Pierferdinando Casini abbia tenuto in questi ultimi anni di opposizione un atteggiamento limpido e coerente, smentendo sistematicamente tutte le voci su un suo imminente avvicinamento alla maggioranza berlusconiana, su ministeri in ballo, eccetera, e dimostrandole infondate. Così come è indubbio che sulle questioni di correttezza istituzionale e critica ai metodi della maggioranza sia stato in grado di dire sempre cose severe ed efficaci. Magari si può dire che sia al suo partito che a lui manchi un progetto politico che vada oltre quello berlusconiano: di fatto, Casini – di cui si ricordano rarissime posizioni di principio sui temi puntuali – pensa a una casa dei moderati senza il berlusconismo, con più rispetto per le regole, e poi basta.
Ma qui casca una gragnuola di asini, essendo la storia degli esponenti locali e nazionali dell’UdC assai tormentata dal mancato rispetto delle regole. Proprio la vaghezza del progetto politico definito – tutta democristiana, ma molto di più – ha permesso di arruolare figure con interessi e scopi i più diversi, e spesso non cristallini. Inchieste e accuse diverse, da Cuffaro a Mele a Drago, via via riguardano spesso uomini dell’UdC, senza che il partito abbia mai pensato di mettere in discussione una questione morale. E proprio per questo, gli annunci dell’anno scorso – a volerci credere – erano sembrati una novità e una rottura necessaria e benvenuta.
Quindi oggi Casini e i suoi non si possono limitare ad affidare la questione all’iter processuale: furono loro stessi ad annunciare azzeramenti e la credibilità dell’UdC non può sperare di essere ricostruita solo perché non ci si è venduti (non tutti) alla maggioranza berlusconiana. Sarebbe da affrontare l’appuntamento con Naro – confermato dallo stesso Naro – dando delle spiegazioni sui perché e sui per come. Sarebbe da cambiare regime, insomma, nei fatti e nelle parole, e diventare un partito non sospetto, con un progetto, e non una casa di accoglienza per ambizioni e procedure poco raccomandabili. L’unica obiezione sarebbe: già, e poi cosa rimane? Ma non è un’obiezione accettabile.