L’attacco alla sede del partito Baath a Damasco
La sede del partito del presidente siriano Assad sarebbe stato colpita da alcune granate: ma ci sono diverse perplessità sul presunto attentato
Nella notte tra sabato e domenica, due granate avrebbero colpito a Damasco la sede del partito siriano Baath, quello a cui appartiene il presidente Bashar al Assad. L’attentato è stato rivendicato dall’esercito dei militari disertori, la Free Syrian Army. Sarebbe il primo, serio attacco ad Assad nella capitale siriana, finora roccaforte del suo potere e del consenso. Alcuni abitanti del quartiere centrale di Mazraa, dove sarebbe avvenuto l’attacco, hanno dichiarato a Reuters e BBC di aver visto all’alba del fumo proveniente dalla sede del Baath, quando il palazzo era quasi vuoto. Inoltre, in seguito all’attacco, avrebbero notato uno spiegamento di forze intorno all’edificio, che ora sarebbe occupato dalla polizia.
Tuttavia il corrispondente della BBC e altri testimoni hanno dichiarato che la sede del Baath non ha riportato danni apparenti, e che anzi l’attacco potrebbe essere una messinscena dello stesso partito del presidente per alzare la tensione e dimostrare alla Lega Araba che il regime non ha di fronte civili inermi ma veri e propri combattenti ribelli.
Il partito Baath, fondato poco dopo la fine della seconda guerra mondiale dagli intellettuali siriani Michel Aflaq and Salah al-Din al-Bitar, è al potere in Siria dal 1963, quando organizzò un colpo di stato. Hafiz al-Assad, padre dell’attuale presidente, ne era un alto esponente, ed è rimasto alla guida del partito e dello stato dal 1970 alla sua morte, nel 2000. Nato come partito internazionale e panarabo (il motto è “unità, libertà e socialismo” per il mondo arabo), il suo nome significa “resurrezione”, “rinascita”. Il Baath si è sempre politicamente ispirato a una terza via, a metà tra nazionalismo e socialismo arabi, e aspira all’unione dei singoli paesi dell’area contro “l’imperialismo occidentale”. Nonostante le sue ambizioni panarabe e internazionaliste, il Baath è andato al potere, oltre che in Siria, solo in Iraq, dove ha governato stabilmente dal 1968 al 2003, anno della caduta del suo ultimo leader Saddam Hussein, quando è stato definitivamente sciolto nel paese.
La situazione in Siria
Ieri sera è scaduto il termine del nuovo piano di pace presentato lo scorso 2 novembre dalla Lega Araba, che la Siria ha detto di voler rispettare, e che si basa fondamentalmente su cinque punti: fine della violenza contro i civili, libertà di movimento per i giornalisti stranieri, rilascio dei prigionieri arrestati nelle ultime settimane, ritiro degli avamposti militari dalle città siriane e dialogo tra governo e opposizioni.
Gli sforzi di Assad per adempiere a queste richieste dovrebbero essere supervisionati da una delegazione di osservatori della Lega Araba, che però Assad vorrebbe limitare a un numero non superiore a 40. È un punto centrale della questione: se la sua azione venisse effettivamente limitata dagli osservatori arabi, il governo siriano potrebbe perdere il controllo delle zone già in bilico, come quelle intorno a Homs e Hama, i centri della rivoluzione siriana.
Intanto, solo ieri, secondo gli attivisti, sarebbero morte almeno 20 persone in numerose città della Siria. Aumentano di giorno in giorno, inoltre, gli scontri tra esercito ufficiale e disertori, riuniti sotto l’etichetta della Free Syrian Army, sulla cui composizione e effettiva forza numerica, tuttavia, si hanno ancora poche informazioni.
Il presidente siriano Assad, per la seconda volta in poche settimane, ha alzato la voce nei confronti della comunità internazionale, concendendo un’intervista a un quotidiano britannico. Dopo il Sunday Telegraph, stavolta il presidente siriano ha parlato con il Sunday Times, al quale ha ribadito che la Siria «non si piegherà alle minacce» e che con il suo comportamento la Lega Araba «darà adito a un intervento militare occidentale che destabilizzerà l’intera regione». Assad ha aggiunto che il regime non sta combattendo i civili (tra cui ci sarebbero stati, secondo Assad, solo cinquecento morti, e non 3500 come sostengono le stime dell’Onu), ma dei «ribelli armati», e ha detto che presto ci saranno le riforme annunciate da tempo: «Nuove elezioni, un nuovo parlamento, un nuovo governo e una nuova costituzione», ha promesso Assad.
foto: LOUAI BESHARA/AFP/Getty Images