• Libri
  • Martedì 8 novembre 2011

Per legge superiore

Il romanzo di Giorgio Fontana sulla giustizia, su Milano e sulla complicazione delle cose

di Giorgio Fontana

Lapresse
11-04-2011
Cronaca
Processo Mediaset Silvio Berlusconi si presenta in aula
Nella foto I sostenitori di Silvio Berlusconi fuori dal tribunale di Milano

Lapresse
11-04-2011
Cronaca
Processo Mediaset Silvio Berlusconi si presenta in aula
Nella foto I sostenitori di Silvio Berlusconi fuori dal tribunale di Milano

I chiodi. Tutto cominciava da lì. Ogni giorno, andando a lavoro oppure uscendo per pranzo o ancora tornando a casa, Doni si fermava un istante e li guardava.
Da lontano sembravano solo imperfezioni o macchie naturali delle lastre: e invece erano chiodi, grossi chiodi a espansione in metallo: un modo per tenere saldo il marmo, visto che la malta originale stava per cedere e l’intero edificio era a rischio.
Quegli oggetti avevano qualcosa di morale, naturalmente. Il luogo della Giustizia piegato alle leggi più alte della materia. Ma Doni ci vedeva soltanto l’idiozia della gente, e appena un monito: mai edificare sulla sabbia.

Il giorno in cui lei gli scrisse, Doni pensò che il Palazzo aveva subito quel destino perché rifiutava lo spazio circostante. Lo combatteva, incapace di appartenere a quella come a qualsiasi altra zona della città. E non poteva essere solo una questione di chiodi e crepe e bruttura, e nemmeno l’architettura fascista o il trionfo della larghezza sull’altezza bastavano a condannarlo: no, il Palazzo aveva un attributo unico.
Era qualcosa che aveva a che fare con l’esilio. Una sensazione difficile da catturare.
Dentro quell’edificio Doni si sentiva esiliato dal resto della città, della nazione, del mondo. Tenuto in piedi dalla forza di centinaia di chiodi, sabbia edificata sulla sabbia.
Invece della solita barretta energetica, il giorno in cui lei gli scrisse Doni pranzò con Salvatori, un sostituto procuratore della Repubblica. Non era abitudine. I magistrati erano sempre di fretta, e al più si andava in qualche orribile self-service dei dintorni.
I pochi amici rimasti, e suo cognato in particolare, lo invidiavano per la posizione del Palazzo: sarà stato un Coso che Rifiutava lo Spazio, quel che voleva, ma era a due passi dal Duomo. Di qui l’idea che lui pranzasse in piccole, deliziose brasserie stile francese o in austeri bar anni Venti – risotto allo zafferano, bistecche, e caffè al bancone con la sciarpa sul cappotto.
In realtà, Doni e colleghi mangiavano quasi solo panini. Molti avevano sviluppato un autentico odio per il rito del pranzo, e alcuni tiravano diritti fino all’aperitivo o alla cena, dove si rifacevano del resto.
Ma con Salvatori era diverso. Con lui perdere un po’ di tempo era piacevole, perché era volgare e disperato. Due caratteristiche che Doni odiava, ma che riunite in un lucano grassoccio, sui quarantacinque anni e non privo di autoironia, producevano un composto divertente.
Andarono in un ristorante in via Corridoni. Doni ordinò una sogliola alla mugnaia e provò una birra artigianale. Per tutto il pranzo gestirono il solito teatro in cui Salvatori faceva il chiacchierone e Doni reggeva la parte con risposte telegrafiche.
«Tu ormai sei a posto, eh», diceva Salvatori.
«Più che a posto sono vecchio».
«Eh, sì. Ma arrivarci, in Procura Generale». «Guarda che ci arrivi pure tu. Basta avere pazienza». «Ma tu sei quadrato. Sei uno che lavora duro, lo sanno tutti».
«Ho sempre lavorato duro».
«Sì, ma continui a farlo. Non ti siedi. Capisci cosa voglio dire?».
Doni scosse appena la testa.
«Adesso ti danno una bella procura di provincia e ti sistemi», insisté Salvatori. «O no?».
«È quello che spero. Dovevo andare a Varese, ma hanno preferito Riccardi». Doni tagliò l’ultimo pezzetto di sogliola in due parti uguali. «Più giovane e più brillante di me, a quanto pare».
«E più legato alla sua corrente».
«E più legato alla sua corrente».
«Ma adesso ti rifai, no? Pavia, Piacenza… O magari più a nord, Como… Come cazzo si chiamano quei posti lì?».
«Non so. Como, Lecco?».
«Sì, esatto. Un posto così».
«Vedremo».
«Sei stufo di star qua, eh?».
Doni alzò le spalle e bevve un sorso d’acqua. La cameriera portò il conto.
«Io ne ho le tasche piene», disse Salvatori. «Milano mi fa schifo. Son quattro anni che ci lavoro e già non ne posso più. Ma come si fa? Sì, lo so, si sopravvive. È appunto questo il problema. Milano è una città che si attraversa. Io ancora non l’ho capita, e soprattutto non la conosco. Ci passo sempre sotto, a questa città del demonio. Abito a Piola, prendo la verde, poi cambio con la rossa, esco a San Babila al mattino e percorso inverso la sera. Mi vuoi dire dove minchia vivo?».
«A Piola».
«Sì, buonanotte».
«Puoi passeggiare la sera, se ci tieni tanto».
«Ma no. Dove vuoi andare? Poi d’inverno fa freddo e d’estate fa caldo».
«Be’, ora si sta bene».
«Ah, come posso spiegarti. È una questione di tempi, di passi». Doni allargò un sorriso. «Di gratificazione».
«Milano è una città avara. Devi pregarla, per ottenere qualcosa».
«Ma non sono abituato. Io sono abituato che una città mi arrivi in faccia, non che debba mettermi in ginocchio e combattere per ogni pezzetto di pace. Sarà che sono del sud come da luogo comune, che ne so. Sarà quel che sarà, ma per vivere qui ci va l’aiuto di Dio».
«Amen», disse Doni, e prese un altro sorso di birra artigianale. Era fresca e forte: sentì la bocca rilassarsi e un dolore piacevole alle mascelle.
Salvatori lo fissò e si fece una risata.
«Amen», ripeté. «E gloria nell’alto dei cieli».

Ma uscendo dal ristorante, Doni vide un raggio di luce tagliare i palazzi all’incrocio con via Conservatorio. C’era una calma innaturale in quel momento, una bellezza scritta nel contrasto: la teoria di Salvatori confutata, e Milano improvvisamente splendida.
Doni ricordò di quando, da giovane, tornava a casa dei suoi dopo le lezioni di diritto. Tagliava per quelle strade e risaliva via Sottocorno, poi corso Indipendenza fino a piazzale Susa, dove suo padre aveva comprato un trilocale con i risparmi del nonno. Ogni tanto si fermava in un bar del corso per un tramezzino, oppure deviava verso nord e andava a vedersi un film in corso Buenos Aires. Nessuna vertigine – soltanto la dolcezza di una tregua.
Salvatori lo stava anticipando di qualche passo. Doni si fermò un istante a guardare ancora la luce: il raggio si era frantumato in una sorta di nitore sparso che avvolgeva ogni cosa: i rami pieni di gemme, le pareti dei palazzi, i davanzali. Aprile sembrava un corpo prima ancora che un mese.
Un bambino scattò verso la fontanella davanti la chiesa di San Pietro in Gessate. Un anziano elegante infilò il giornale sottobraccio e lanciò due note con un fischio.
Doni sentì un fremito e lo catalogò sotto un piacere che non provava da tempo – una cosa breve, immediata e che probabilmente dipendeva dalla birra: era vivo.

Passò il pomeriggio nella sede dei server, a sbrogliare un problema con i tecnici. (Suo malgrado, era stato nominato responsabile dei computer della Procura Generale). Una segretaria aveva cancellato per errore parte del database, anche se continuava a negarlo. Era in lacrime sulla sedia e scuoteva la testa e il dito indice: non è colpa mia, non è colpa mia!, diceva, si è chiusa una finestra di colpo sullo schermo, non ho capito cos’è successo, ma non è colpa mia!
Doni aveva poche nozioni al riguardo e la responsabilità di decidere cosa salvare: i tecnici ne avevano molte di più, ma erano abbastanza confuse. Mentre discuteva sul da farsi lo chiamò Ferrero. Un collega piemontese, magrissimo, probabilmente pazzo. Doni uscì e rispose al cellulare.
«Roberto», disse. «Ti cercavo».
«Marco».
«Ti posso rubare un secondo? Ho un problema con il pc».
«Anch’io», disse Doni. «E con diversi pc».
«In che senso?».
«Sono nella sala server, è successo un mezzo casino». «Ah». Un attimo di pausa. «È che si tratta di un virus». «Fai partire l’antivirus».
«Non so come si fa».
«Come, non sai come si fa?».
«Non lo so. Ho sessantun anni, Roberto».
«Che c’entra? Io ne ho sessantacinque».
«Non puoi venire a darci un occhio?».
Doni sentì il sangue pulsare all’altezza della coscia sinistra.
«Marco» disse con calma, «ci sono i tecnici per questo. Chiamane uno. Io sono un magistrato. Già mi domando perché sia qui».
«Lo so, lo so, ma sai com’è…». Abbassò la voce. «Di te mi fido, sei un collega. Questi poi chissà cosa dicono in giro».
«E che dovrebbero dire?».
«Abbassa la voce… No, è che sai, giri su certi siti e poi magari ti trovi i virus, no?».
«Certi siti?».
«Abbassa la voce».
Doni sussurrò: «Marco, mi stai dicendo che vai sui siti porno a lavoro?».
«Ma no, ma che porno. Cioè, non proprio. Faccio dei giri su internet, ogni tanto… Va be’, dai, ci siamo capiti, fra uomini. Allora, mi dai una mano?».

Quando tornò nel suo ufficio, la luce era calata e il Palazzo aveva ripreso il sopravvento. La piccola gioia del mezzogiorno – scomparsa.
Doni alzò la tenda e guardò fuori. Erano le sei e un quarto e gran parte del lavoro che avrebbe voluto finire giaceva ancora intonso sulla scrivania. Impiegò qualche istante a decidere se fare serata, come quando era più giovane (e la cosa gli piaceva: gli piaceva scendere di corsa per una piadina e una coca-cola, gli piaceva sentire il giorno che se ne andava, il brivido improvviso della sera – gli piaceva lavorare nel deserto e in solitudine), oppure tornare a casa.
Alla fine si convinse a rimandare. Era troppo stanco e il finale di pomeriggio a togliere virus da quel pervertito di Ferrero l’aveva distrutto. Sedette alla scrivania, fece un cerchio con il mouse, e aprì Outlook per dare un’ultima occhiata alla posta elettronica.
Fra le e-mail ancora da leggere, ce n’era una da un indirizzo sconosciuto. La aprì.

Per legge superiore è il nuovo romanzo di Giorgio Fontana, scrittore trentenne di Saronno, pubblicato da Sellerio. Goffredo Fofi ha scritto su Internazionale che è “un romanzo inaspettatamente maturo, denso, chiaro, importante, seguendo un modello che tanti hanno cercato malamente di copiare ma con risultati scadenti, spesso opportunistici e furbetti. Il modello è quello di Sciascia, romanziere civile, colto, morale, che ha scavato nelle pieghe più nere della nostra società. Fontana ambienta la sua storia in una Milano di minuziosa topografia, piatta nella sua felicità abitudinaria e consumistica, ma amata. Il suo “giallo” si concentra sulla crisi di un magistrato, sostituto procuratore generale, coinvolto nella scoperta di un’innocenza. Ma se dichiarerà innocente l’immigrato che tutti vogliono colpevole, metterà in crisi carriera e affetti, immagine e abitudini. Il personaggio di Doni è uno dei più belli della nostra letteratura recente, con la sua storia comune, i suoi dubbi e incertezze morali, e infine il suo rifiuto di accettare il mondo com’è, l’Italia com’è”.