La prossima guerra sul debito americano
Democratici e repubblicani devono trovare un accordo entro il 23 novembre, e non potrebbero essere più lontani di così
di Francesco Costa
L’estate scorsa la politica americana si è occupata a lungo di una questione economica che ha poi portato, tra le altre cose, al declassamento del rating da parte di Standard & Poor’s: il tetto del debito. Ad agosto, infatti, dopo una trattativa complicata ed estenuante, democratici e repubblicani trovarono un accordo per alzare il tetto fissato dalla legge per le dimensioni del debito pubblico americano, concedendo così al governo di continuare a prendere denaro in prestito. Se l’accordo non fosse stato raggiunto il governo avrebbe dovuto cessare le sue attività, lasciare i dipendenti pubblici a casa, smettere di pagare stipendi e sussidi. Standard & Poor’s decise comunque di declassare il rating degli Stati Uniti, per via della complicata trattativa politica e del suo esito, giudicato deludente.
L’accordo trovato tra democratici e repubblicani – per il quale Obama fu accusato di subalternità e arrendevolezza – prevedeva il taglio di 2,4 migliaia di miliardi di dollari di spesa pubblica, e prevedeva la scansione dei tagli in due tempi: un primo pacchetto subito, un secondo dopo un ulteriore esame del Congresso, con un’altra scadenza. Quella scadenza è fissata per il prossimo 23 novembre. Il Congresso ha nominato un cosiddetto “super comitato” composto da 12 membri, 6 democratici e 6 repubblicani, dando loro mandato di decidere come e dove tagliare. I sei democratici sono Murray, Baucus, Kerry, Becerra, Clyburn e Van Hollen. I sei repubblicani sono Kyl, Portman, Toomey, Hensarling, Upton e Camp. L’accordo prevedeva un’altra clausola: allo scopo di incentivare i 12 a prendere delle decisioni condivise, si stabiliva che in assenza di un accordo entro il 23 novembre, sarebbero entrati automaticamente in vigore una serie di tagli lineari per 1,2 migliaia di miliardi di dollari. Metà sulle spese militari, care ai repubblicani, e metà sui programmi di welfare, cari ai democratici.
Tre mesi dopo l’insediamento del super comitato, non è stato raggiunto nessun accordo. Rimangono due settimane, ma a oggi non si vedono elementi per pensare che la situazione possa cambiare. L’oggetto del contendere è, in breve, l’inserimento di nuove tasse. I democratici, spalleggiati dalla Casa Bianca, sostengono che il debito pubblico americano si debba ridurre non solo con i tagli alla spesa ma anche aumentando le tasse a chi ha redditi molto alti e paga troppo poco, meno di quanto paghi la classe media. I repubblicani hanno fatto una bandiera della loro tassativa opposizione a qualsiasi aumento delle tasse, a qualsiasi cittadino e a qualsiasi condizione, riproponendo così lo stesso atteggiamento oltranzista che gli aveva consentito di ottenere in agosto un accordo più che favorevole. I democratici però sembrano avere imparato la lezione, e non sono disposti a fare passi avanti se la loro controparte non vuole fare altrettanto. Bill Daley, il capo dello staff della Casa Bianca, è stato appena “degradato” e gli viene imputata, tra le altre cose, proprio la cattiva gestione della trattativa sul debito di agosto. Charles Schumer, uno dei più importanti senatori democratici, ha detto ieri di non credere che il super comitato troverà un accordo.
Un mancato accordo non genererebbe un default tecnico dell’economia americana, come sarebbe accaduto lo scorso agosto, ma avrebbe comunque conseguenze molto pericolose. Concretamente, i tagli lineari metterebbero a rischio alcuni cruciali programmi di welfare in un periodo di difficoltà economica, rischiando di compromettere i consumi e la ripresa, e costringerebbero il Pentagono a revisionare completamente le sue operazioni e le sue spese. Politicamente, poi, sarebbero una nuova dimostrazione dell’incapacità del Congresso di gestire i problemi degli Stati Uniti, e potrebbero quindi portare a ulteriori declassamenti da parte delle agenzie di rating.
La partita del super comitato si intreccia a quella sulla legge sulla creazione di posti di lavoro promossa da Barack Obama lo scorso 8 settembre, già bocciata dai repubblicani alla Camera nonostante il vasto consenso tra esperti ed economisti sugli effetti benefici che avrebbe sull’economia americana, e quindi alla campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo: i repubblicani accusano i democratici di essere interessati solo a fare propaganda, sostenendo che la legge Obama non avrebbe effetti concreti sui posti di lavoro; i democratici accusano i repubblicani di non essere interessati alle sorti del Paese, e di volere anzi approfittare politicamente delle difficili condizioni dell’economia.
foto: Alex Wong/Getty Images