La festa induista di Chhath
La storia e le immagini della ricorrenza che si è celebrata ieri: i fedeli hanno offerto canti, doni e preghiere al dio sole sulle rive di un corso d'acqua
di Matteo Miele, Royal University of Bhutan
Non si conosce con precisione quando dall’ovest, dall’Asia centrale, gli arii, indoeuropei, invasero l’India. Doveva essere circa quattromila anni fa. Le popolazioni autoctone vennero sottomesse e intrappolate nel sistema delle caste, che tuttavia era ancora fluido e incerto. Al vertice c’erano appunto gli arii. Gli indigeni si ritrovarono invece in basso. Dovevano però passare ancora più di mille anni per il totale irrigidimento della società in sacerdoti, guerrieri, mercanti, servi e senza casta, che infine l’India indipendente e repubblicana, tra mille limiti, ha scelto di rifiutare. Gli arii portarono i loro dei, le divinità vediche. Veda vuol dire “conoscenza” e sono gli antichissimi testi sacri che plasmarono la remota identità religiosa dell’India. Poi arrivarono i Purana e gli equilibri all’interno del Pantheon induista cambiarono. Nuovi dei, anticamente relegati a posizioni secondarie, vennero promossi a divinità principali. Ma nei Veda (che sono composti dal Rig-Veda, Yajur-Veda, Sama-Veda, Atharva-Veda) c’erano Indra, il dio del firmamento ed Agni, il dio del fuoco (si veda il latino ignis). Dyaus Pita era il dio del cielo, Varuna presidiava la notte mentre Mitra il giorno. Yama era il dio della morte. E poi c’era Surya, il dio sole, figlio della dea Aditi e marito di Ushas, l’aurora. La sua biga è trainata da un cavallo a sette teste. A lui sono ancora oggi dedicate diverse festività induiste. Una di queste è Chhath, che si è celebrata ieri in India, in Nepal e tra le comunità induiste del mondo. Al sole vengono offerti doni, gli sono dedicati i canti che i fedeli intonano davanti ai fiumi, ricalcando così memorie che durano millenni, ricordando e onorando non solo la divinità, ma anche il proprio passato.