La ricerca scientifica sui blog
Come la Rete sta cambiando il rapporto degli scienziati con le loro scoperte e con l'opinione pubblica
di Riccardo Spezia
Il rapporto tra i blog e la stampa tradizionale, così come quello tra giornalismo cartaceo e giornalismo online, è da anni al centro di un dibattito internazionale allo stesso tempo interessante e pigro, centrale per l’evoluzione della società moderna ma viziato da luoghi comuni e superficialità. Discussioni del genere, seppure un po’ diverse, stanno avvenendo da tempo anche per una serie di pubblicazioni meno generaliste, che si trovano anche loro ad affrontare le difficoltà e le sfide poste dalle nuove tecnologie: le pubblicazioni scientifiche.
Qualche giorno fa il Guardian raccontava proprio il rapporto tra i blog e la ricerca scientifica, partendo da una domanda posta a due fisici inglesi, Brian Cox e Jeff Forshaw, dell’università di Manchester. Lo spunto nasce dalla seguente domanda posta via email da un lettore, qualche giorno prima: “Cosa ne pensate degli scienziati che pubblicano la propria ricerca sui loro blog piuttosto che aspettare la pubblicazione dei loro risultati finali sulle riviste scientifiche?”. I due scienziati si sono detti entrambi molto critici riguardo questa possibilità, sottolineando come la serietà della ricerca scientifica si garantisce solo con il meccanismo della cosiddetta peer review.
Dunque, gli articoli scientifici sono i luoghi dove chi fa ricerca presenta i propri lavori, teorici o sperimentali. Questi vengono inviati dagli autori alle riviste, i cui editori per prima cosa decidono se l’argomento è di loro interesse: questa pre-selezione è in genere maggiore quanto più la rivista è generalista, come Nature o Science, per citare le più famose. Se l’argomento è di loro interesse, l’articolo viene inviato ad altri scienziati del campo specifico (chiamati “reviewers”, revisori) che devono valutare il lavoro. La valutazione è ovviamente sempre un esercizio soggettivo, e i tempi e la mole delle pubblicazioni moderne non consentono quasi mai di “rifare” gli esperimenti per verificarli. Si può (e si deve) però verificare che gli autori abbiano descritto nei dettagli come sono stati condotti gli esperimenti (a un livello tale che possano essere riprodotti) e che le conclusioni derivino dai dati. Si devono cioè seguire le basi del metodo scientifico. Queste due regole non sono ovviamente gli unici criteri di giudizio, ma ne costituiscono gli elementi base. Il giudizio viene quindi mandato all’editore che decide se il lavoro è pubblicabile e al tempo stesso invia i commenti (in forma anonima) agli autori, che possono così migliorare il proprio lavoro. Infatti un buon revisore non è necessariamente chi dice semplicemente che il lavoro è pubblicabile o no, ma chi ne trova e ne indica i punti deboli, così da incoraggiare una sua revisione migliorativa.
Questo metodo, che è quello utilizzato da tutte le riviste scientifiche propriamente dette, è sicuramente fallace: esistono margini di miglioramento, ma è per ora il sistema migliore che la comunità scientifica ha trovato per garantire la più alta qualità dei suoi lavori. Certo sono possibili frodi, come favoritismi e “dispetti” tra gruppi. È come la democrazia, diciamo: ha tanti difetti ma ancora non si conosce un metodo migliore.
Da circa dieci anni tutto questo processo avviene tramite posta elettronica e siti delle riviste, cui si mandano gli articoli in formato elettronico. Anche le stesse riviste sono sempre più consultate tramite Internet e sempre meno si ha bisogno di avere accesso ai giornali cartacei, poiché gli editori stanno mettendo in rete anche i volumi più vecchi (di questi giorni è la notizia che la Royal Society ha messo in rete gratuitamente gli archivi delle sue riviste storiche). L’uso di Internet resta però sotto il controllo degli editori: semplicemente rende più veloce il processo ufficiale della peer review, facendo diminuire il tempo che passa da quando gli scienziati inviano un articolo per la pubblicazione a quando questo, se approvato, è messo a disposizione della comunità.
L’enorme facilità di comunicazione permessa da Internet sta però condizionando questo genere di meccanismo. Ci sono scienziati che quotidianamente riportano i propri risultati sui propri blog, come David Hogg, professore di astronomia alla New York University, Rosie Redfeld, microbiologa all’università della British Columbia o Marco Delmastro, ricercatore in fisica al CNRS.
Finora questo approccio non ha messo in discussione il sistema delle peer review, finché è chiaro il limite tra rendere pubblico il proprio lavoro e dargli valore scientifico. La scelta di rendere accessibile a tutti il proprio lavoro prima di pubblicarlo, d’altra parte, non è una novità. Ci sono stati in passato molti grandi annunci di presunti grandi scoperte che si sono rivelate essere delle bufale, si pensi alla fusione fredda. Ma esistono anche modi più seri e discreti per utilizzare il mezzo.
Tra i fisici, per esempio, soprattutto tra quelli delle alte energie, si usa molto il sito ArXiv, dove è possibile depositare i risultati dei propri lavori per sottoporli a discussione prima di pubblicarli. Così, per esempio, è stato presentato alla comunità il risultato sulla misura della velocità dei neutrini. Su ArXiv gli esperti ne stanno molto discutendo (ci sono già almeno 40 articoli) mentre ancora nulla è stato pubblicato su una rivista scientifica tramite processo di peer review.
Naturalmente questo tipo di cambiamento offre rischi e opportunità. Pubblicare i risultati di una ricerca solo sui propri blog, senza sottoporsi al vaglio della comunità internazionale, mette in crisi la credibilità di un sistema rigoroso e rodato. Se si arrivasse a fare a meno delle riviste scientifiche, si creerebbe una grande confusione tra i risultati seri e quelli di ciarlatani smaniosi di fama: la prima vittima sarebbe l’opinione pubblica, più che gli scienziati. Dall’altro lato, è opinione condivisa che la Rete possa cambiare in meglio il modo di comunicare della scienza. Se le pubblicazioni restano il vero riferimento per misurare la qualità scientifica delle scoperte, la Rete permette alla comunità scientifica di far conoscere il proprio lavoro: cosa utile sia per rendere consapevoli i cittadini di cosa sia effettivamente finanziato dalle proprie tasse, sia per sensibilizzarli sull’importanza degli investimenti nella ricerca.
– Cos’è la ricerca, davvero, di Massimo Sandal