La Libia non può stare tranquilla
Cinque motivi per tenere a freno l'ottimismo tra armi ovunque, divisioni interne degli ex-ribelli e una forte instabilità locale
Saif al-Islam, uno dei figli di Gheddafi, dichiarò all’inizio dell’insurrezione contro la dittatura che la Libia senza suo padre sarebbe diventata “la nuova Somalia”, agitando lo spettro della guerra civile, dei signori della guerra e dell’anarchia politica che da vent’anni regnano nel paese dell’Africa orientale. Più realisticamente, le difficoltà nel vicino Egitto di trovare un assetto stabile dopo la fine di Mubarak sono un esempio dei problemi che si possono presentare nei paesi del Nordafrica che escono da lunghi anni di dominio autoritario. Sono già emersi attriti, insofferenze e tensioni tra le varie forze che hanno contribuito alla fine di Gheddafi: la nuova Libia ha diversi problemi da risolvere per costruire la sua nuova democrazia.
1. Il Consiglio Nazionale di Transizione
Il primo ministro libico provvisorio Jibril ha dichiarato oggi che le nuove elezioni si terranno “entro otto mesi al massimo”. A marzo promise che nessun membro dell’attuale CNT si sarebbe candidato, e avrebbe avuto quindi un ruolo di primo piano nel primo governo eletto dopo 42 anni di dittatura. Il Consiglio Nazionale di Transizione, che ha una quarantina di membri, è formato per la maggior parte da ex ministri e alti funzionari del regime di Gheddafi, che lo hanno abbandonato nel corso dei mesi di insurrezione che hanno portato alla sua caduta. Ha il supporto della NATO e dei paesi occidentali, molti dei quali lo hanno riconosciuto come il solo vero rappresentante del popolo libico in ambito internazionale quando controllava ancora poco più che la metà orientale del paese.
Nelle ultime settimane il CNT ha annunciato più volte che avrebbe presentato i membri di un governo di transizione, ma finora ha indicato solo il primo ministro, Mahmud Jibril, il suo vice e il ministro della difesa. Jibril è stato professore di scienze politiche all’università di Pittsburgh, negli Stati Uniti, ma è anche stato un importante membro del regime di Gheddafi a partire dagli anni Ottanta, con diversi incarichi nel settore economico e delle relazioni internazionali. Finora, il CNT non è stato in grado di superare le divisioni tra i diversi leader locali, mettendoli d’accordo su quale spazio di rappresentanza dare a ogni regione della Libia. Questo vuoto di potere sta ritardando le azioni più concrete per unificare il paese, riportare un’autorità non militare al comando e impedire che i vari gruppi armati acquistino autonomia ancora maggiore.
2. I poteri locali
Ciascun leader delle principali città libiche, come Misurata, Bengasi e Zintan, richiede per sé e per i propri sostenitori un ruolo di primo piano, sulla base del loro contributo dato alla lotta contro Gheddafi. Jibril è particolarmente avversato a Misurata, un centro industriale e commerciale che è stato a lungo assediato dall’esercito di Gheddafi. I ribelli di Misurata, negli ultimi mesi del conflitto, sono emersi come la forza più potente dal punto di vista militare. Ogni città principale, compresa la capitale, ha un proprio consiglio militare che comanda su migliaia di combattenti dell’insurrezione.
Dal punto di vista della conduzione della guerra i consigli militari sono stati per larga parte autonomi, e i loro capi rivendicano ora uguale autonomia politica per i prossimi mesi, con dichiarazioni molto critiche nei confronti del CNT. Queste divisioni sono diventate evidenti molto presto. Subito dopo la conquista di Tripoli, il capo del CNT Mustafa Abdul-Jalil ha dichiarato, mentre ancora erano in corso i festeggiamenti, che bisognava guardarsi dai “fondamentalisti estremisti che si trovano tra le file dei ribelli”. Un altro membro del CNT, Ibrahim Chalgham, attualmente capo della delegazione libica presso le Nazioni Unite (ed ex ministro degli esteri di Gheddafi per molti anni) ha detto che Abd al-Hakim Bel Haj, il leader islamista che ha guidato l’assalto al complesso residenziale di Gheddafi ad agosto, “è solo un predicatore e non un comandante militare.”
3. Le armi
In Libia rimangono alcune sacche di resistenza isolate in diverse località, ad esempio intorno alla città di Sebha, nel cuore del deserto libico occidentale. Ma queste ultime resistenze militari non sono un problema serio per la nuova Libia. Il problema, piuttosto, è quello di disarmare e integrare le varie milizie impedendo scontri armati tra le diverse fazioni, molte delle quali hanno avuto modo di armarsi fino ai denti in completa autonomia: nelle ultime fasi della guerra ciascun consiglio militare, in primo luogo quello di Misurata, ha costruito i propri arsenali sottraendo grandi quantità di armi, compresi carri armati e artiglieria, all’esercito di Gheddafi.
Molti comandanti militari hanno rifiutato esplicitamente di entrare a far parte di un esercito nazionale, come ha fatto il capo della potente Brigata 17 Febbraio, Fawzi Bukatif. Alcuni combattenti, come l’islamista Abd al-Hakim Bel Haj (capo del Consiglio Militare di Tripoli), potrebbero sentirsi messi da parte nella nuova spartizione del potere politico, e potrebbero decidere di non deporre le armi (non l’hanno ancora fatto) se i rappresentanti “civili” non dessero garanzie da loro giudicate adeguate. Bel Haj ha già detto che gli islamisti non potranno essere esclusi dal processo politico della nuova Libia.
4. Le prime elezioni in sessant’anni
La nascita della Libia come stato unitario e moderno risale solo al 1951. Le uniche elezioni multipartitiche si sono tenute nel 1952, dopo che le Nazioni Unite guidarono il processo di unificazione delle tre province della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan. Non sono un precedente benaugurante: accusate di essere manipolate dal governo monarchico con sede a Bengasi, aprirono la strada a disordini che portarono alla messa al bando di tutti i partiti politici nell’arco di poco tempo.
La lunga era di Gheddafi che si aprì nel 1969 ha creato il vuoto nell’educazione politica e democratica del paese, a causa dei radicali cambiamenti delle politiche economiche e internazionali che avvennero in pochi decenni e che furono tutte ugualmente comandate dal leader e dal gruppo ristretto al potere. Nel campo delle politiche economiche, al socialismo spinto degli anni Settanta e Ottanta si sostituirono le liberalizzazioni dei primi anni Duemila (in cui ebbe un ruolo anche l’attuale primo ministro provvisorio Jibril), che furono oggetto di discussione e di scontri anche aspri, ma solo tra la fazione dei riformatori (come Saif al-Islam Gheddafi) e la “vecchia guardia” del regime con molti privilegi da difendere. Allo stesso tempo, la Libia avviò una politica di riappacificazione con molti paesi occidentali precedentemente nemici, ricevendo ottima accoglienza sia a Washington che a Londra (e a Roma). Come scrive Alex Warren su Foreign Policy, «Gheddafi, in breve, non lascia dietro di sé alcuna eredità ideologica. Sarà affascinante vedere che tipo di partiti politici – senza i quali non ci può essere transizione democratica – emergeranno dopo di lui».
5. Una regione instabile
Secondo Jeremy Keenan, professore alla School of Oriental and African Studies di Londra, c’è un altro potenziale motivo di instabilità nella nuova Libia, e viene dai paesi confinanti. Il problema ruota principalmente intorno ai nomadi di etnia tuareg, che abitano per la maggior parte nei deserti dell’Algeria, del Niger e del Mali e che hanno una lunga storia di insurrezioni contro i vari poteri statali (l’ultima nel 2007-2009) sono presenti in numero minore anche in Libia, in un’area al confine con l’Algeria e il Niger.
La situazione economica, dopo l’inizio dell’insurrezione a febbraio, è rapidamente peggiorata nei paesi confinanti con la Libia a causa dell’afflusso di decine di migliaia di profughi (200.000 in Mali e altrettanti in Niger secondo i rispettivi governi, 80.000 in Chad), principalmente di etnia tuareg, che sono tornati nei loro paesi di provenienza, dopo che negli ultimi 30 anni hanno trovato lavoro o rifugio nella Libia di Gheddafi. Migliaia di loro sono stati molto probabilmente arruolati come mercenari negli ultimi mesi, mentre altri facevano parte dell’esercito di Gheddafi già da tempo. Si tratta di persone addestrate a combattere, appartenenti a un popolo che da molto tempo si sente messo da parte dai governi centrali, ha portato avanti molte insurrezioni autonomiste e probabilmente ha accolto i convogli di uomini e armi che hanno lasciato la Libia nelle ultime settimane. Se ritornassero le insurrezioni, anche le aree di confine con la Libia potrebbero esserne coinvolte.
foto: AP Photo/Sergey Ponomarev