Come vanno le cose in Siria
I manifestanti hanno festeggiato la morte di Gheddafi e sperano nella fine del regime di Assad, che continua a reprimere le proteste con la violenza
In Siria proseguono le manifestazioni contro il regime di Bashar al-Assad, presidente dal 2000. La notizia della morte di Muammar Gheddafi è stata accolta con gioia dai manifestanti, che hanno mostrato striscioni di solidarietà e di sostegno al popolo libico durante le proteste che si sono tenute lo scorso venerdì dopo la preghiera di mezzogiorno in diverse città del paese.
Il governo continua a rispondere con la repressione. A Homs, nella Siria centrale, sono arrivati rinforzi militari per combattere contro reparti dell’esercito che hanno disertato e sono passati dalla parte degli oppositori. Durante la giornata di venerdì, secondo quanto riportano i Comitati Locali di Coordinamento (un gruppo di attivisti che ha organizzato e provato a coordinare le proteste negli ultimi sei mesi) sono morte almeno 24 persone a causa della repressione in tutto il paese.
La rivolta siriana è una delle più complesse tra i movimenti di protesta che sono nati quest’anno nel mondo arabo e una di quelle su cui si ha più difficoltà a ottenere informazioni. Nel corso delle ultime settimane c’è stata una novità decisiva: all’interno del movimento di opposizione, anche a causa delle diserzioni nell’esercito, ha cominciato a diventare più diffuso il ricorso a mezzi violenti.
La situazione in Siria
Per circa sette mesi le manifestazioni di protesta sono rimaste pacifiche, diffuse in molte città del paese ma non nei due centri principali, la capitale Damasco nella Siria meridionale, vicino al confine con il Libano, e Aleppo, che si trova a nord. Decine di migliaia di attivisti sono stati arrestati e incarcerati. A differenza di quanto è successo in altri paesi, gli oppositori non sono riusciti a organizzare una manifestazione permanente come quella di piazza Tahrir al Cairo, dato che tutti i tentativi sono stati dispersi violentemente dalle forze governative.
Il continuo ricorso alla repressione armata da parte del governo, con l’uso massiccio di unità paramilitari poco organizzate e violente, i cosiddetti shabbiha, non è riuscito a eliminare le proteste, ma ha causato un crescente ricorso alla violenza anche da parte dei manifestanti: la violenza rimane condannata dal Consiglio Nazionale Siriano, un organismo unitario degli oppositori formato lo scorso settembre, e dai Comitati Locali di Coordinamento.
Dall’inizio delle rivolte sono morte circa 3000 persone, secondo le stime delle Nazioni Unite. I combattimenti più intensi, di recente, sono stati intorno a Homs. Dalla fine di settembre, i soldati che hanno disertato (che secondo un funzionario statunitense sarebbero 10.000 in tutto il paese), riuniti sotto la sigla dell’Esercito Libero Siriano, hanno iniziato a organizzare attacchi alle forze governative. L’esercito siriano è sempre stato diviso tra diverse fazioni che rispecchiano le divisioni sociali e religiose della Siria: le più fedeli ad Assad, e quelle che molto probabilmente lo saranno in ogni caso, sono quelle che appartengono al gruppo religioso sciita della corrente alauita, lo stesso del presidente.
Le minoranze siriane (come gli alauiti, o i cristiani, mentre i tre quarti della popolazione è sunnita) formano anche la base dei sostenitori del regime, quelli che hanno avuto più benefici dalla presa del potere da parte di Hafiz al-Assad, padre di Bashar, che instaurò un regime autoritario nel 1971. Nei giorni scorsi ci sono state manifestazioni di sostegno al presidente in diverse città siriane, tra cui Aleppo, che hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di persone.
La comunità internazionale
Lo scorso 4 ottobre, i membri europei del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Francia, Germania e Regno Unito) hanno presentato una risoluzione che condannava la repressione delle proteste da parte del governo di Assad e che minacciava sanzioni. La risoluzione, che sarebbe stata la prima mossa diplomatica con qualche valore legale adottata dall’ONU, è stata bocciata a causa del veto posto da Cina e Russia, nonostante sia stata riformulata tre volte dai proponenti e il testo sia stato reso meno duro fino ad eliminare la parola “sanzioni”. India, Sudafrica, Brasile e Libano si sono astenuti. L’ultima volta che Russia e Cina avevano esercitato insieme il diritto di veto risaliva al luglio 2008, quando avevano rifiutato la proposta di sanzioni contro lo Zimbabwe.
Il New York Times spiega che la Russia ha rapporti molto stretti con la Siria, sia commerciali che militari, del valore di diversi miliardi di dollari ogni anno. Il regime di Assad, che si instaurò annunciando politiche socialiste, costituisce l’unico alleato affidabile nella regione della Russia, che dai tempi della Guerra Fredda mantiene nel paese una base navale a Tartus, il secondo porto siriano. Ma soprattutto, prosegue il quotidiano, molti esperti ritengono che Cina e Russia siano concordi nel tentativo di interrompere i cambiamenti di regime degli ultimi mesi nella zona mediterranea, che sono stati sostenuti attivamente dai paesi occidentali e che, temono, potranno danneggiare i loro interessi nella zona.
Mentre l’azione delle Nazioni Unite è stata bloccata dal veto del 4 ottobre, la Lega Araba ha annunciato domenica 16 ottobre che manderà dei suoi rappresentanti a Damasco, che cercheranno di organizzare colloqui tra il governo di Assad e l’opposizione, che in passato ha rifiutato la possibilità di aprire un dialogo, dicendo che la condizione necessaria per terminare le proteste è la fine del regime di Assad. L’annuncio è stato fatto da Hamad bin Jassim Al-Thani, primo ministro del Qatar, al termine di una riunione che ha rifiutato l’opzione di sospendere la Siria dall’organizzazione internazionale. Il segretario generale della Lega Araba ha detto che verrà proposto di aprire un dialogo entro 15 giorni tra i rappresentanti del governo e dell’opposizione siriana al Cairo. L’ambasciatore siriano presso la Lega ha rifiutato la possibilità, dicendo che la Siria è uno stato indipendente e sovrano e che “ogni dialogo nazionale potrà tenersi solo in Siria”.
foto: AP Photo/Bassem Tellawi