La Scozia vuole un po’ di indipendenza
A che punto sono le velleità secessioniste del partito di Alex Salmond, dopo il successo elettorale di maggio
Lo Scottish National Party (SNP, “Partito Nazionale Scozzese”) ha iniziato ieri il suo congresso annuale a Inverness. Alle elezioni per rinnovare i 129 seggi del parlamento scozzese, che si sono tenute il 5 maggio 2011, lo SNP ha preso circa il 45% dei voti e ha ottenuto ben 69 seggi: per la prima volta nella breve storia del nuovo parlamento della Scozia, nato nel 1999, un partito ha conquistato la maggioranza assoluta e può ora governare da solo.
Lo Scottish National Party promuove l’indipendenza della Scozia dal Regno Unito, con maggiori o minori insistenze da molti anni a seconda dei tempi: e la politica britannica si chiede se l’ultimo successo spinga di più questa rivendicazione, o se la trattenga. Il primo ministro e leader dello SNP, Alex Salmond, parla dell’indipendenza alla fine della pagina sul sito ufficiale del partito che presenta la sua vision per una Scozia “migliore”:
Possiamo migliorare la Carta [che stabilisce lo status della Scozia all’interno del Regno Unito] e dare alla nostra nazione la libertà di cui ha bisogno per prosperare, prendendoci più responsabilità qui in Scozia. L’indipendenza che proponiamo per la Scozia ha esattamente questo scopo. È grazie all’indipendenza – la condizione naturale per le nazioni come la Scozia – che avremo la possibilità di determinare il nostro proprio destino e di costruire il futuro migliore per il nostro paese.
Nonostante la grande vittoria alle ultime elezioni per lo SNP, che è un partito nazionalista ma di orientamento socialdemocratico nelle politiche sociali, i sondaggi continuano a dire che la maggioranza degli scozzesi è contraria all’indipendenza: l’ultimo, condotto all’interno dello Scottish Social Attitudes Survey, mostrava che solo il 23% degli scozzesi vuole l’indipendenza completa dalla Gran Bretagna.
Alex Salmond conosce bene questi dati. Anche se ha ripetuto che il momento è favorevole a un nuovo referendum che chieda l’indipendenza, non sembra che il suo partito stia facendo di tutto per tenerlo il prima possibile. Gli scozzesi, infatti, vogliono maggiore autonomia dal Regno Unito (e questo è il motivo per cui hanno votato lo SNP a maggio, preferendolo al Labour e al partito conservatore) ma non intendono separarsi: l’opzione a cui sono favorevoli in larga maggioranza, sempre stando ai sondaggi, è la cosiddetta devo max, ovvero la completa autonomia fiscale all’interno del Regno Unito e la possibilità del parlamento scozzese di legiferare in ogni ambito eccetto la difesa e la politica estera, che rimarrebbero competenza del Regno Unito. Al momento, il parlamento ha competenza su tutte le politiche che riguardano l’istruzione, la salute, le tasse locali, i trasporti, l’ambiente e l’ordine pubblico.
Salmond si adegua, e in un’intervista al Guardian, la scorsa settimana, ha detto che il referendum sarà diviso in due parti: la prima chiederà agli scozzesi se vogliono l’indipendenza senza condizioni, e la seconda invece chiederà loro di esprimersi sulla devo max, o “indipendenza leggera”. Salmond è stato di fatto costretto ad esprimersi, perché il primo ministro britannico David Cameron e il leader dei liberaldemocratici Nick Clegg gli hanno chiesto spesso, nelle ultime settimane, di chiarire i dettagli della sua proposta di referendum, che dovrebbe tenersi nel 2014 o nel 2015. Due settimane fa, durante la conferenza annuale del partito conservatore, Cameron ha chiamato Salmond “a big feartie”, un gran codardo, usando un vecchio termine scozzese, e Clegg ha detto che Salmond “deve avere il coraggio delle sue convinzioni”. Entrambi sanno che sottoporre agli scozzesi un solo quesito secco sull’indipendenza porterebbe a una sconfitta nel referendum e a un problema politico per lo SNP.
Il primo ministro scozzese ha risposto per le rime, dicendo che i Tories e i Liberaldemocratici non hanno “nessun mandato, neanche la scintilla di un mandato” per pronunciarsi sulle questioni scozzesi, dato che alle ultime elezioni in Scozia hanno preso rispettivamente il 14% e l’8%, piazzandosi al terzo e al quarto posto. Ma prima della scorsa settimana Salmond è stato molto reticente sui dettagli del referendum, dicendo solo che intende permettere, per la prima volta nella storia elettorale dell’intero Regno Unito, che votino anche i ragazzi di 16 e 17 anni. Per complicare ulteriormente il quadro, in un messaggio alla regina Elisabetta II, Salmond ha detto la scorsa estate che “l’unione delle corone” non sarà toccata nella “nuova era” che si è aperta negli ultimi anni per la Scozia, facendo intravedere uno status della Scozia simile a quello degli altri paesi del Commonwealth in cui la regina britannica è nominalmente il capo dello stato.
Una lunga storia
La storia dell’indipendentismo scozzese è vecchia di almeno tre secoli. Nel 1707, il regno di Scozia entrò a far parte del Regno di Gran Bretagna insieme all’Inghilterra, e i due parlamenti vennero fusi insieme. La fusione non fu tranquilla né pacifica, e nel 1746, a Culloden, i sostenitori dell’antica casata reale scozzese, quella degli Stuart, combatterono e persero l’ultima battaglia combattuta sul suolo britannico, mettendo fine a ogni prospettiva realista di riottenere l’indipendenza.
Un’indipendenza che era desiderata ardentemente da una parte degli scozzesi che forse non era maggioranza neppure allora, ma che è rimasto un tema ricorrente nel discorso politico della Scozia. E si arriva al 1997, quando Tony Blair divenne primo ministro e si affrettò a mantenere ciò che aveva promesso agli scozzesi che lo avevano aiutato a battere i Tories. L’11 settembre si tenne un primo referendum sul trasferimento dei poteri a un’autorità nazionale scozzese, la celebre devolution, e vinsero i sì con tre quarti dei voti. (Nel 1979 – prima che Margaret Thatcher si facesse malvolere – un analogo referendum era fallito per mancanza del quorum richiesto.) Il nuovo parlamento scozzese, detto Holyrood dalla zona di Edimburgo dove si trova il suo edificio, si insediò il 12 maggio 1999.
Ma la coalizione tra laburisti e liberaldemocratici che governò dal 1999 al 2007 deluse gli scozzesi: l’identità nazionale non ricevette molto più di qualche parata di cornamuse. Le speranze di stimoli verso un nuovo futuro, soprattutto economico, andarono deluse. Secondo molti, il parlamento era solo il funzionario esecutore della dipendenza economica da Londra.
Anche la legge sulla devolution aveva qualche difetto. La sua incongruità è diventata nota nel dibattito politico come “West Lothian question”, da quando fu sollevata nel parlamento britannico da un deputato dell’omonimo collegio (che si trova vicino a Edimburgo): il paradosso è che un deputato scozzese eletto a Westminster non può intervenire su molte questioni che riguardano il suo collegio (che la legge affida al parlamento scozzese) mentre ha voce e voto in capitolo su ciò che riguarda gli altri collegi britannici e solo quelli. E naturalmente non vale il viceversa: un deputato inglese non decide ciò che succederà in materia di sanità in Scozia (il suo collega scozzese invece vota sulla sanità in Inghilterra).
Al centro di tutto, naturalmente, c’è una questione di soldi. Malgrado su Internet si trovi il folklore dei Braveheart e qualche pagliacciata equivalente al nostro Dio Po, la leadership del partito nazionalista scozzese ha idee chiare e concrete sul futuro della Scozia, al passo con i tempi. Oggi la Scozia riceve un fiume di contributi statali per la sua economia, intorno a 25 miliardi di sterline nel 2007. La spesa pubblica pro capite in Scozia è superiore del 30% a quella del resto del Regno Unito. Molti inglesi farebbero volentieri a meno di darglieli, questi soldi. Molti osservatori sostengono che l’economia scozzese possa svilupparsi e modernizzarsi solo senza questi contributi. In Scozia, però, c’è chi teme di rimanere al verde e che solo una politica di tagli possa permettere alla Scozia di camminare da sola, ora che delle acciaierie, dei cantieri navali e delle miniere sovvenzionate non è rimasto quasi più niente e il grosso dei soldi va nel settore pubblico.
Ma c’è la questione del petrolio dei mari intorno alla Scozia, che secondo molti, Salmond compreso, cambia tutto. “Quali contributi? Forse non ve ne siete accorti, ma non è l’Inghilterra a sovvenzionare la Scozia, quanto il contrario. Le cifre delle sovvenzioni non mettono in conto i guadagni britannici dai pozzi scozzesi nel mare del Nord. Siamo in credito da trent’anni”, ha detto Salmond qualche anno fa.
Il vero problema della Scozia
La questione politica principale, dicono gli esperti, non è tanto l’indipendenza formale dal Regno Unito, ma quella di dare alla Scozia un miglioramento decisivo della sua situazione economica e una chiara prospettiva per il suo futuro. Lo SNP ha tutti i numeri per prendere i provvedimenti necessari, da dominatore del parlamento e della scena politica, ma bisogna vedere se sarà in grado di farlo.
Secondo Martin Kettle del Guardian, questo è il tema in cui si deve inserire il partito laburista, che ha preso il 31% nelle ultime elezioni e attraversa un momento di debolezza, ma “è l’unico che ha ancora il potenziale” per contestare il fatto che il devo max sia una proposta e una battaglia che può essere portata avanti solamente dallo SNP. Lentamente il partito laburista scozzese sta costruendo la sua autonomia all’interno del Labour britannico, in cui ha avuto una parte importante negli ultimi anni (l’ex primo ministro britannico Gordon Brown era scozzese).
Alex Salmond.
foto: Jeff J. Mitchell/Getty Images