I suicidi dei monaci tibetani
Sono 5 dall'inizio di ottobre, e 9 dall'inizio dell'anno, i monaci che si sono dati fuoco per protestare contro l'occupazione cinese
Nove monaci tibetani, cinque dall’inizio di ottobre, si sono dati fuoco per protestare contro l’occupazione cinese del Tibet e per il ritorno del Dalai Lama. Il 17 ottobre anche una donna, la prima dall’inizio delle proteste, si è cosparsa di carburante e si è immolata vicino al suo monastero, il Mamae Dechen Choekhorling Nunnery, vicino a Ngaba, nella regione del Sichuan. Tenzin Wangmo, vent’anni, con il corpo in fiamme, ha camminato sulla strada per otto minuti cantando e gridando slogan a favore dell’indipendenza del Tibet. La notizia è stata data in un comunicato da Free Tibet, un’organizzazione che sostiene l’indipendenza e ha sede a Londra. Nonostante il divieto posto dagli agenti di polizia cinese, il corpo della giovane religiosa è stato portato dentro il monastero.
Il portavoce del ministro degli Esteri Liu Weimin, subito dopo l’episodio, ha detto di non avere informazioni precise e ha aggiunto che «promuovere e incoraggiare attentati contro la propria vita è immorale». Oggi il governo tibetano in esilio in India e il Dalai Lama hanno organizzato a Nuova Dheli una manifestazione e una veglia di preghiera e digiuno per i tibetani che si sono immolati.
I martirii che i religiosi tibetani si infliggono sono iniziati con il gesto di Phuntsog, ventun’anni, che a marzo di quest’anno si è dato fuoco fuori dal monastero di Kirti. Dopo l’episodio, le forze di sicurezza cinesi hanno tenuto in detenzione i circa trecento monaci di Kirti per un mese (condannandone tre a 10-13 anni di reclusione per aver “assistito” il compagno nell’immolazione). La sorveglianza del monastero è ancora oggi molto pressante. L’abate in esilio di Kirti ha infatti parlato di «repressione», di trasformazione del monastero «in prigione», dicendo che il «punto di disperazione è tale che la gente preferisce morire piuttosto che vivere».
Ngaba (Aba per i cinesi) è una zona a prevalenza tibetana nella regione del Sichuan ed è, da marzo 2008, il centro della protesta dei monaci contro il governo centrale di Pechino. È anche il luogo dove si sono verificate sette delle otto precedenti immolazioni: i morti sono quattro. Da mesi la contea di Ngaba è assediata da 20mila agenti della polizia cinese. Le proteste si stanno aggravando non solo nel Tibet propriamente detto, ma anche nelle aree ora divise tra altre regioni amministrative cinesi. Tre giorni fa, in una zona del Sichuan tibetano, la polizia cinese ha aperto il fuoco e ferito due monaci durante una manifestazione di protesta nella prefettura di Garze. Ancora oggi non si sa come stiano e dove si trovino i due contestatori feriti.
L’ultima grande insurrezione in Tibet è scoppiata a Lhasa, nella capitale, e risale a marzo 2008, poco prima dell’apertura in agosto delle Olimpiadi in Cina. Nella repressione della polizia cinese sarebbero morte almeno cento persone. Il 10 marzo di quest’anno a Dharamsala, la città indiana al confine col Tibet che è sede del governo in esilio, Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, aveva annunciato la rinuncia al potere temporale, dunque alla sua leadership politica. Poco dopo si sono svolte le elezioni del governo tibetano (non riconosciuto dalla Cina né da nessun altro paese) che hanno portato alla vittoria Lobsang Sangay, il primo laico a diventare Kalon Tripa, primo ministro.
Il Tibet, secondo il governo in esilio, ha un’estensione di 2,5 milioni di chilometri quadrati, un quarto dell’intera Cina e comprende le grandi aree che per secoli sono state sotto l’influenza culturale tibetana. Per la Repubblica Popolare Cinese, il Tibet corrisponde invece alla Regione Autonoma del Tibet limitata all’altipiano e con un’estensione di 1,2 milioni di chilometri quadrati.
Il potere esercitato dalla Cina è stato contestato fin dal 1950 quando, dopo la proclamazione della Repubblica Popolare cinese, le truppe di Mao Zedong invasero il Tibet centrale e imposero la loro autorità. Questo portò ai primi episodi di resistenza che esplosero il 1959 nella rivolta di Lhasa cui parteciparono anche i monaci buddisti. La repressione della Cina fu violentissima e vennero uccise decine di migliaia di tibetani. Il 17 marzo 1959 il Dalai Lama abbandonò Lhasa e cercò asilo politico in India. A partire dal 1959 iniziarono le riforme democratiche imposte dalla Cina alle istituzioni religiose buddiste che portarono allo spopolamento dei monasteri, all’arresto di molti monaci e al saccheggio delle loro proprietà. Dal 1962 circa settanta mila tibetani si sono rifugiati in Nepal e in India.