L’ascesa di Herman Cain
Ritratto del candidato repubblicano esploso nei sondaggi delle ultime settimane, che non ha mai fatto politica ma ha diretto una catena di pizzerie
di Francesco Costa
Le primarie repubblicane negli Stati Uniti cominceranno con ogni probabilità il prossimo 3 gennaio in Iowa. L’ultimo sondaggio sull’Iowa, effettuato da InsiderAdvantage/Newsmax, vede il candidato che tutti oggi danno come favorito per la vittoria finale, Mitt Romney, al secondo posto col 18 per cento dei voti. Rick Perry, il suo principale rivale, sarebbe addirittura sesto col 6 per cento. Michele Bachmann e Ron Paul, candidati molto conservatori e molto apprezzati dai tea party, sarebbero rispettivamente terza e quarto. Il candidato in testa è Herman Cain. Si potrebbe pensare a un sondaggio sballato. Ma il dato è in linea con quanto emerso nelle rilevazioni degli ultimi dieci giorni. I sondaggi dicono che Cain è in testa anche in North Carolina e in South Carolina. In New Hampshire, Nevada e Florida Cain è secondo dietro Romney. A livello nazionale, secondo un recente sondaggio dell’Economist, Cain è in testa, davanti a Romney e tutti gli altri. Tocca prenderlo sul serio, Herman Cain.
Herman Cain ha 65 anni ed è nato a Memphis, in Tennessee. Viene da una famiglia povera, è cresciuto in Georgia, ha un diploma in matematica e una laurea in Informatica. È sposato da 43 anni, ha due figli e tre nipoti. È nero. Non ha mai fatto politica, eccezion fatta per gli anni trascorsi – dal 1992 al 1996 – prima nel consiglio di amministrazione e poi alla presidenza della Federal Reserve del Kansas. Cain deve il grosso della sua notorietà e della sua ricchezza alla sua carriera di imprenditore. Dopo qualche anno di gavetta alla Coca Cola, all’età di 36 anni Cain venne nominato dalla società Pillsbury responsabile di 400 ristoranti Burger King collocati nell’area di Philadelphia. Se la cavò molto bene, tanto da essere promosso ad amministratore delegato di un’altra catena, stavolta di pizzerie: Godfather’s Pizza (lo slogan è Una pizza che non puoi rifiutare). Cain arrivò nel 1986, risanò la società e la comprò nel 1988, continuando a fare l’amministratore delegato fino al 1996.
Da quel momento Cain si è diviso tra un sindacato di ristoratori e qualche campagna politica su temi cari all’opinione pubblica conservatrice. Apertamente repubblicano, nel 1996 Cain ha dato una mano alla campagna di Bob Dole, lo sfidante di Bill Clinton, mentre nel 2000 ha tentato una candidatura alla presidenza archiviata nel giro di pochi mesi. Nel 2004 si è candidato al Senato, non riuscendo però a vincere le primarie repubblicane in Georgia. Nel 2010, dopo aver partecipato a molte manifestazioni dei tea party, ha deciso di candidarsi di nuovo alla presidenza degli Stati Uniti. E stavolta gli sta andando molto meglio che in passato.
Herman Cain ha cominciato la sua campagna come il più improbabile e sconosciuto del campo dei candidati repubblicani. Newt Gingrich era stato lo speaker della Camera che si era opposto a Bill Clinton. Michele Bachmann è la candidata preferita dai tea party. Rick Perry è il popolare governatore di uno dei più grandi e popolosi Stati d’America. Ron Paul è un monumento del conservatorismo libertario statunitense. Mitt Romney ha fatto il governatore di uno Stato storicamente di sinistra come il Massachusetts. Herman Cain non è nessuno di importante, non ha fatto niente di importante. Non è nemmeno semplicemente famoso per altre vie, come era il caso di Donald Trump.
Le ragioni dell’ascesa di Cain sono sostanzialmente due. Una ha a che fare con le cose in cui è bravo. Cain è un oratore molto abile, populista e spiccio ma senza bava alla bocca, spesso persino simpatico (circola parecchio un video del 1996 in cui canta Imagine there’s no pizza). Le sue posizioni sono conservatrici, e in questo non sono molto diverse da quelle di Rick Perry o di Michele Bachmann. Cain però ci mette un tono da uomo del fare, pragmatico e scanzonato, che rimarca la sua distanza nei confronti di chi ha bazzicato più a lungo la politica americana. Diversi sondaggi hanno mostrato come all’inizio della campagna Cain fosse praticamente sconosciuto agli elettori repubblicani, ma che settimana dopo settimana più gente lo sentiva parlare e più gente si aggiungeva alla schiera dei suoi sostenitori, in proporzione molto più che agli altri candidati.
L’altra ragione dell’ascesa di Cain ha a che fare con le debolezze dei suoi avversari. La grandissima maggioranza degli analisti e degli osservatori statunitensi, anche conservatori, considera il campo dei candidati repubblicani debole e mediocre. Mitt Romney è molto migliorato rispetto a quattro anni fa ma si ritrova favorito praticamente per esclusione, tanto che è stata a lungo evocata la possibile candidatura di Chris Christie e che nel corso dei mesi diversi candidati hanno goduto di momentanei successi nei sondaggi seguiti da cali repentini. È successo a Donald Trump, che non era nemmeno candidato; è successo a Michele Bachmann; è successo a Rick Perry. Molti scommettono che lo stesso accadrà presto a Herman Cain. È probabile che sia così. Anche perché ora tutti prendono Cain parecchio sul serio.
In occasione dell’ultimo dibattito repubblicano Cain ha occupato il posto centrale del palco insieme a Romney, scalzando Perry (le posizioni vengono assegnate in base ai risultati nei sondaggi). E al contrario di quanto era accaduto nelle precedenti occasioni, sia il moderatore che gli altri candidati lo hanno sottoposto a diverse domande sulle sue competenze e sul suo originale piano economico. Chiamato 9-9-9, il suo progetto è considerato inconsistente da economisti e analisti ma finora la sua semplicità propagandistica ne ha facilitato la diffusione nell’elettorato repubblicano. Anche la stampa ha cominciato a seguirlo con più attenzione ed esporre i suoi difetti. Uno su tutti: la politica estera. Cain ha dato risposte molto evasive parlando di Iraq e Afghanistan, e ha fatto capire di non essere interessato a quello che accade fuori dai confini degli Stati Uniti. Quando un giornalista gli ha chiesto se è pronto a rispondere a domande tipo “Come si chiama il presidente dell’Uzbekistan”, Cain ha risposto così.
«Quando mi chiederanno chi è il presidente dell’Ubeki-beki-beki-beki-stan-stan, io dirò: “Sai che c’è, io non lo so, tu lo sai?”. E poi aggiungerò: “E dimmi, saperlo mi aiuterà a creare più posti di lavoro?”. Voglio concentrarmi sulle priorità di questo paese. Non su qualche piccolo e insignificante paese del mondo»
La pressione dei media e il nuovo status di candidato di primo piano – ben più impegnativo di quello ricoperto da Cain in precedenza – hanno già messo Cain in difficoltà. Qualche giorno fa Cain è stato costretto ad ammettere che il suo piano economico aumenterà le tasse su alcuni americani, cosa certo non gradita all’elettorato repubblicano. E sempre qualche giorno fa Cain ha detto, tra il serio e il faceto, che per ostacolare l’immigrazione clandestina si potrebbe costruire al confine una grande barriera elettrificata.
Stasera Herman Cain sarà impegnato in un altro dibattito con i suoi avversari, stavolta a Las Vegas. Molti si aspettano che i suoi numeri nei sondaggi tornino giù nel giro di poche settimane. Altri pensano che la spinta di questi giorni possa garantirgli fondi e visibilità per arrivare in Iowa con buone possibilità, e giocarsi lì il tutto per tutto. Entrambe le cose sono possibili. Le primarie repubblicane cominciano praticamente tra due mesi. Cain sarà pure una meteora, ma se riuscirà a restare in piedi fino a gennaio potrà contare molto di più di quanto chiunque avesse pensato leggendo per la prima volta della candidatura dell’ex proprietario di una catena di pizzerie.
foto: NICHOLAS KAMM/AFP/Getty Images