In Egitto l’esercito non lascia il potere
La transizione verso la democrazia procede lentamente e c'è il timore che i militari rimangano al comando fino al 2013
A una settimana dalla strage di cristiani copti avvenuta al Cairo (26 morti), cresce la pressione sull’esercito egiziano guidato dal generale Hussein Tantawi che di fatto governa il paese dalla caduta del regime di Hosni Mubarak, avvenuta l’11 febbraio scorso. Le proteste dei cristiani, degli attivisti e dei politici liberal sono continuate nei giorni scorsi: in Egitto si rischia una guerra settaria, scenario che in passato è stato sfruttato dai governanti egiziani per regolare a proprio piacimento il corso di politiche interne ed esterne, come già visto durante il governo dell’ex presidente Anwar al Sadat. Giovedì scorso, per placare le faide religiose sempre più frequenti dopo la caduta di Mubarak, il governo provvisorio guidato dal premier Essam Sharaf e i militari hanno annunciato una sorta di condono per i luoghi di culto costruiti illegalmente sul territorio egiziano. Una mossa tesa evidentemente a placare la rabbia della comunità copta, che in passato ha eretto chiese senza il permesso delle autorità.
Tuttavia, nonostante gli ultimi proclami dell’esercito di avviare il trasferimento di poteri alle autorità civili entro sei mesi, i militari non sembrano affatto voler cedere la guida del paese. Anzi, potrebbero conservarla per più tempo del previsto. In settimana, due importanti esponenti del Consiglio supremo delle forze armate egiziano hanno rilasciato interviste che hanno portato nuove preoccupazioni tra gli attivisti della rivoluzione. Uno di loro, il generale Mahmoud Hegazy, ha dichiarato che «l’esercito manterrà il potere fino all’elezione di un nuovo presidente» che però potrebbe avvenire solamente nel 2013, dopo le consultazioni legislative (previste per il 28 novembre, ma che formeranno una camera dai poteri limitati), l’elezione dell’assemblea costituente e la ratifica di una nuova costituzione.
Nei mesi successivi alla caduta di Mubarak, la giunta militare aveva fatto intendere che le elezioni presidenziali si sarebbero svolte nel settembre 2011. In seguito, i militari hanno cambiato idea e hanno deciso di posticiparle, anche su pressioni della comunità internazionale, Stati Uniti in primis, per paura che consultazioni troppo ravvicinate avrebbero favorito i Fratelli musulmani, il partito islamista perseguitato dal regime di Hosni Mubarak.
Ieri, in un’intervista al Financial Times, uno dei candidati alle presidenziali egiziane, l’ex capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica Mohamed El Baradei, ha esortato i militari a lasciare il potere al più presto: «Pensavano di saper governare. Invece serve immediatamente un nuovo governo. La situazione è insostenibile. Non ci sarà mai sicurezza se non verranno ristabiliti l’ordine, la legge e soprattutto le forze di polizia. Oggi l’Egitto è una società senza leggi».
Una legge che invece viene applicata senza troppe remore dai militari è quella dello stato di emergenza, in vigore dal 1981 dopo l’assassinio dell’ex presidente Anwar al Sadat (Mubarak l’aveva prorogata di altri due anni nel 2010). La legislazione dà ampi poteri alle forze dell’ordine, in questo caso all’esercito, in materia di arresti e detenzione per periodi illimitati e permette il ricorso ai tribunali militari. Le continue perquisizioni nella sede egiziana di Al Jazeera rientrano in questo contesto.
Dopo la rivoluzione del gennaio scorso, l’esercito ha arrestato e processato, spesso sommariamente, migliaia di persone, molte delle quali ritenute colpevoli di aver criticato l’esercito. Come ha evidenziato un recente rapporto di Human Rights Watch, dal 28 gennaio 2011, quando le forze armate hanno assunto poteri di polizia, sarebbero almeno 12mila i civili arrestati e processati dai tribunali militari. Una cifra superiore al numero di civili incarcerati negli ultimi trent’anni di governo Mubarak. Di questi 12mila civili processati dall’esercito, che a volte non ha concesso loro nemmeno un avvocato per cui difendersi, solo 795 sono stati assolti.
Un caso esemplare in tal senso è la detenzione di Maikel Nabil Sanad, un blogger 26enne egiziano arrestato lo scorso 28 marzo per i suoi post critici nei confronti dell’esercito e condannato a tre anni di carcere per “oltraggio alle forze armate”. Da 54 giorni Nabil è in sciopero della fame e le sue condizioni di salute sarebbero critiche. La famiglia e Amnesty International hanno chiesto l’immediato rilascio del blogger che ha annunciato di voler continuare a digiunare fino a quando non gli verrà concesso di difendersi in un nuovo processo, questa volta civile. La corte militare egiziana ha invece garantito a Nabil un secondo grado di giudizio a data da definirsi, ma sempre in un tribunale militare.