L’India e tre condannati a morte
Dal 1995 era stata applicata solo una volta, adesso se ne discute per gli assassini di Rajiv Gandhi
La prossima settimana a Chennai, in India, saranno eseguite le condanne a morte di tre uomini accusati di avere partecipato all’omicidio del primo ministro Rajiv Gandhi nel 1991. L’Economist racconta i difetti del sistema giudiziario indiano a partire dalla storia di uno di loro.
Perarivalan fu condannato per avere fornito l’esplosivo all’attentatore suicida. La sua richiesta di grazia è stata respinta lo scorso agosto dopo dieci anni di attesa in carcere. Doveva essere ucciso il 9 settembre, ma il tribunale decise di rinviare l’esecuzione per valutare se gli anni trascorsi in isolamento nell’attesa di una risposta potessero essere motivo per commutare la pena. Ritardi di questo tipo sono molto comuni in India: sedici casi simili sono ora all’attenzione del presidente e la maggior parte delle trecento persone attualmente nel braccio della morte ha atteso per anni prima di conoscere l’esito definitivo del proprio processo.
Nel 1983 la Corte Suprema indiana aveva stabilito che la pena di morte potesse essere applicata soltanto «nel più raro dei casi». Soltanto un prigioniero è stato ucciso dal 1995. Per questo ora la possibilità che tre persone vengano uccise sta suscitando molto clamore in India. Soprattutto perché tutti e tre sono di etnia Tamil, che da sempre lamenta discriminazioni. I loro sostenitori accusano lo Stato indiano di non fare abbastanza per difendere i loro diritti proprio sulla base di pregiudizi razziali. Il 28 agosto una donna è morta dandosi fuoco per protestare contro le imminenti esecuzioni.
Pochi dubitano che i tre siano davvero stati coinvolti nell’omicidio di Rajiv Gandhi. Ma molti dubbi restano invece sulle indagini e sul processo, che si concluse quando era ancora in vigore una legge anti-terrorismo che ora è stata abolita. Le condanne si basarono su confessioni estorte con la violenza dai poliziotti. Uno dei poliziotti, attualmente in pensione, Mohan Raj, chiede che vengano fermate le esecuzioni e dice di essere pronto a testimoniare di avere picchiato i tre uomini per farli confessare. «Che cosa ti aspettavi? Avevano ucciso il nostro primo ministro. Eravamo tutti molto arrabbiati».
Perarivalan all’epoca aveva 19 anni. Ha raccontato più volte che Raj e gli altri agenti lo colpivano con sacchetti riempiti con del cemento e poi lo lasciavano per giorni senza dormire e senza bere, e gli conficcavano spilli nelle mani finché non lo costringevano a firmare dichiarazioni di colpevolezza. Oggi sono in molti a sostenere che non si trattò di un processo ma di una vendetta, eppure il governo potrebbe comunque decidere di non bloccare la sua esecuzione.
L’India teme che abolire del tutto la pena di morte possa incoraggiare i poliziotti a uccidere arbitrariamente i presunti criminali in cui si imbattono per strada, dice l’Economist. E possa essere una mossa politicamente troppo impopolare, con la popolazione che si lamenta di non sentirsi abbastanza sicura e protetta da possibili attentati.