L’incertezza delle “prove scientifiche”
Carlo Federico Grosso sulla Stampa approfitta del caso Kercher per fare qualche riflessione sull'uso di indizi e perizie nella giustizia italiana
Carlo Federico Grosso è un noto e apprezzato avvocato penalista italiano, insegnante universitario a Torino. È stato tra le altre cose vicesindaco di Torino (indipendente in quota PCI), membro del Consiglio Superiore della Magistratura, avvocato difensore di Annamaria Franzoni e legale delle testate Repubblica e l’Espresso. Oggi sulla Stampa approfitta dell’imminente sentenza di secondo grado sull’omicidio della studentessa britannica Meredith Kercher per fare qualche riflessione sul valore e il ruolo delle prove scientifiche nei processi indiziari.
Oggi i giudici di Perugia si riuniranno in camera di consiglio. Questa sera, forse nella notte, dovremmo conoscere la sentenza. Raramente un epilogo giudiziale è stato tuttavia così aperto, così incerto.
Tutti abbiamo seguito con attenzione il processo. Un processo indiziario nel quale c’è stata un’accanita, a volte violenta battaglia giudiziaria. Un processo nel quale scenari, prospettive, quadro e dettagli sono sovente cambiati. Un processo in cui, ancora una volta, come in altri processi per delitti di sangue, un ruolo di rilievo ha avuto la «prova scientifica», ma nel quale essa, ancora una volta, si è rivelata fonte di dubbi piuttosto che di certezze.
Non credo sia il caso di ripercorrere, qui, la storia del processo o di riassumere gli elementi a carico o a discarico attorno ai quali hanno discusso accusa e difese. Lo hanno già ampiamente fatto, nei giorni scorsi, le cronache giudiziarie. Mi preme, piuttosto, cogliere l’occasione dell’attesa di una importante sentenza per riproporre vecchi interrogativi in materia di processo indiziario e porre gli interrogativi nuovi suscitati da vicende giudiziarie il cui epilogo, in un modo o nell’altro, non ha del tutto convinto.
Il processo indiziario è un processo nel quale non esiste una «prova decisiva» a carico dell’imputato, ma nel quale a suo carico è emersa una pluralità di elementi indizianti che, nel loro insieme, fanno ritenere che egli sia colpevole. La legge stabilisce che gli indizi possono essere considerati prova, e legittimare la condanna, se sono sufficientemente numerosi, se sono univoci e se sono concordanti.
La legislazione penale italiana prevede tuttavia anche (norma approvata qualche anno fa) che «nessuno può essere condannato se non esiste prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio della sua colpevolezza». È un segnale forte di garanzia. Per potere condannare, nel nostro sistema giuridico, occorre, cioè, avere raggiunto l’assoluta certezza della responsabilità penale dell’imputato. Se un dubbio, anche minimo, permane, si deve assolvere. Ciò significa che gli indizi, per consentire una condanna penale, devono essere talmente forti, talmente univoci, talmente concordanti, da garantire la totale certezza della colpevolezza. Se non l’assicurano, ed i giudici cionondimeno condannano, violano la legge.
Che faranno, allora, i giudici di Perugia? Ovviamente non lo so. So soltanto che, per legge, potranno condannare i due ragazzi soltanto se gli elementi sottoposti alla loro attenzione garantiranno davvero la sicurezza della loro responsabilità. Se dovesse residuare anche soltanto un piccolo dubbio, dovranno necessariamente assolvere.