Il colpo udito in tutto il mondo
Quello durante una partita di baseball, quello raccontato da Don De Lillo, quello di sessant'anni fa
di Luca Sofri
Oggi, 3 Ottobre 2011, sono sessant’anni dal “Colpo udito in tutto il mondo”. Non da quello che avviò l’uso dell’espressione (creata da Ralph Waldo Emerson in riferimento all’avvio della Rivoluzione Americana) né dalle sue successive riproposizioni storiche. Ma nello sport americano, lo “Shot heard ‘round the world” avvenne durante una leggendaria partita da baseball a New York, tra le due squadre locali dei Dodgers e dei Giants. Della centralità di quella partita nella cultura americana scrisse dieci anni fa Luca Sofri (il peraltro direttore del Post).
108. Chiedete a un ragazzino americano cosa gli fa venire in mente questo numero, 108. Ci sono 108 cuciture in una palla da baseball. Lo sanno anche gli stones, in America. E dategliela in mano questa palla con le sue 108 cuciture, al ragazzino americano, e ditegli di lanciarla. Il ragazzino la prende con tre dita pollice, indice e medio e la tira così. Non con tutta la mano, solo i ragazzini stranieri appena arrivati in America lanciano una palla con tutte le dita. Gli americani pensano che la loro giovane cultura abbia prodotto tre cose imbattibili: la costituzione, il jazz, e il baseball. “Vedo cose straordinarie nel baseball. È il nostro sport, lo sport americano. Fa uscire la gente di casa, le riempie i polmoni, dà alla gente un nuovo eroismo fisico. Ci solleva dalle nostre nevrosi. Ripara i nostri guai, ed è una benedizione”. Questo era Walt Whitman, poeta, americano. Per noi ignoranti, quello di “O capitano, mio capitano”, i versi dell'”Attimo fuggente” con Robin Williams.
C’è questo grande romanzo, si chiama “Underworld”. Molti dicono che sia il più grande romanzo americano. Lo ha scritto uno che si chiama Don DeLillo, uno bravo. Tutto il primo capitolo è il racconto formidabile e tesissimo della partita tra New York Giants e Brooklyn Dodgers. Un derby. Adesso non ci sono più, nessuna delle due squadre. O meglio. In America succede questa cosa, impensabile a noialtri quaggiù, che le squadre cambiano città. Lo fanno per motivi economici, perché c’è una città dove verrebbero più tifosi allo stadio, dove ci sarebbero maggiori investimenti, cose così. Nel 1957 non c’erano squadre forti in California e ce n’erano troppe a New York, la capitale del baseball. In un anno solo Giants e Dodgers se ne andarono a San Francisco e Los Angeles, nuovi stadi moderni, nuove folle, nuovi soldi, nuova geografia del baseball. A New York restarono gli Yankees, e una nuova seconda squadra, i Mets, arrivò cinque anni dopo: da allora sono i cugini poveri ma hanno vinto un campionato e l’anno scorso sono arrivati a giocare le finali contro i rivali cittadini, perdendo. Le chiamano le Subway Series, le partite della metropolitana, perché per le trasferte dallo stadio di una squadra a quello dell’altra basta una linea della metropolitana.
Comunque, quando le due squadre abbandonarono New York ci fu una mezza insurrezione, soprattutto a Brooklyn dove i Dodgers erano un’istituzione. L’allora proprietario della squadra Walter O’Malley, responsabile del trasloco, divenne uno degli uomini più proverbialmente odiati della storia di New York. Ma nel 1951 le tre squadre erano ancora tutte là, i tre stadi nel giro di pochi chilometri. Gli Yankees avevano vinto la loro lega e Dodgers e Giants dovevano giocarsi l’altro posto per le finali. Una questione cittadina. E la partita finale di quello spareggio bloccò la città. Jackie Robinson, il primo nero ad aver giocato nella Major League fece entrare un punto. Poi i Giants pareggiarono, ma i Dodgers arrivarono a condurre quattro uno all’ultimo inning.
Già, e che diavolo è un inning? E come si fa ad appassionarsi a uno sport così complicato? Noi italiani non capiamo le regole, si dice spesso. Certo, come no. Infatti Joe Di Maggio non le capiva molto bene. E nemmeno Joe Torre, Lou Piniella, Bobby Valentine e Tony LaRussa, i quattro allenatori delle quattro semifinaliste dell’anno scorso. E nemmeno Rudolph Giuliani, il sindaco di New York che si vanta di aver visto tutte le partite degli Yankees da quando era bambino. E via così, italiani su italiani che hanno fatto la storia del baseball. Quindi ce la possiamo fare anche noi. Ci sono nove tempi innings in una partita di baseball e ciascuno è diviso in due parti, in cui una squadra va in attacco e l’altra in difesa. Chi è in attacco deve cercare di battere la palla che il lanciatore avversario gli tira addosso, e fare di corsa il giro del campo per fare un punto. Se batte un fuoricampo, il punto è fatto. Se batte un fuoricampo con un suo compagno che ha raggiunto già una posizione in campo (una delle “basi”), sono due punti. Se i compagni in campo sono tre il massimo si chiama Grand Slam, quattro punti, il sommo colpo del baseball, un’apoteosi, che non lo vedi spesso per niente.
Quindi se all’ultimo inning stai di sotto 4 a 1, sei nei guai. E i Giants erano nei guai neri, la partita data per finita quando Bobby Thomson va a battere. Ma il baseball è lo sport in cui non è mai finita, in cui chiunque ha sempre un’occasione, come in America. “Non è un bel lancio da battere, alto e interno, ma Thomson ruota su se stesso e colpisce la palla con un colpo fortissimo dall’alto in basso e tutti, tutti, stanno a guardare”. Questo è DeLillo che racconta. Quel giorno, quel momento restò leggendario per i newyorkesi. Thomson fece un Grand Slam per il rotto della cuffia e i Giants ribaltarono il risultato nel modo più spettacolare. “Tutti si ricordano dov’erano quando Bobby Thomson fece quel fuoricampo”.
Una cosa simile è capitata di nuovo il mese scorso, nella quarta partita delle finali tra gli Yankees e gli Arizona Diamondbacks. Sotto per tre a uno, davanti ai 56 mila dello Yankee Stadium, la squadra di casa ha infilato due fuoricampo al nono inning e al secondo supplementare e ha ribaltato una partita decisiva. È venuto giù lo stadio, e la città. Si fa per dire, che lo Yankee Stadium non farà la fine dei suoi storici predecessori cittadini, demoliti cinquant’anni fa. È un mito sportivo, si trova nel Bronx proprio di là dell’Hudson e venne costruito nel 1923 per un semplice motivo, che cominciava con “Babe” e finiva con “Ruth”. Il più grande giocatore della storia del baseball, che portò alla partita talmente tanta gente da convincere i proprietari della squadra a edificare uno stadio nuovo.
Di recente un giornalista del Chicago Tribune ha stilato una lista delle cose che hanno reso grande la cultura americana, a proposito di scontro di civiltà eccetera. Una trentina di momenti storici, capolavori, successi, eventi, opere. Tra questi, due riguardano il baseball. Uno è il discorso d’addio di Lou Gehrig, il più grande prima base della storia, anche lui uno Yankee, soprannominato “cavallo d’acciaio” perché giocò una serie interminabile di partite consecutive senza venir fermato mai da niente, né un acciacco, né una stanchezza, per 14 anni filati. Lo fermò la sclerosi laterale amiotrofica, malattia da allora nota come morbo di Gehrig, che lo uccise a 38 anni. Lasciò il baseball con una cerimonia commovente allo Yankee Stadium: “Sapete che sto avendo un brutto periodo. Ma lasciate che vi dica che con questi compagni, questi fans, e questa famiglia, io mi ritengo l’uomo più fortunato del mondo”.
L’altra citazione è per il fuoricampo di Robert Redford che conclude “Il migliore”, uno dei due miglior film di baseball. L’altro “L’idolo delle folle” racconta la storia di Gehrig, interpretato da Gary Cooper. Il discorso d’apertura di un altro film, più debole, che si chiama “Bull Durham” è invece questo: “Io credo nella religione del baseball. Ho provato tutte le fedi maggiori e molte delle minori. Ho creduto in Buddah, Allah, Brama, Visnù, Shiva, negli alberi, nei funghi e in Isadora Duncan. Le ho provate tutte, davvero, e la sola fede che davvero nutre l’anima, giorno dopo giorno, è quella nel baseball”.
Quest’anno il campionato è finito a novembre invece che a ottobre, per la prima volta nella storia. Tutto per colpa di bin Laden. Nei giorni dopo la strage di New York il campionato si fermò e il calendario slittò di una settimana. Così Derek Jeter, che è stato il primo uomo a battere un fuoricampo a novembre, quattro minuti dopo la mezzanotte del primo del mese, è stato ribattezzato mister November (Reggie Jackson, un giocatore che dava il meglio di sé nelle finali era noto come mr. October). La partita era quella in cui il presidente Bush ha voluto sfidare il rischio attentati e andare a lanciare la simbolica palla inaugurale, sotto il pennone su cui sventolava la bandiera lacera a stelle e strisce recuperata tra le macerie delle twin towers. Tempi cambiati, nel 1969 allo Shea Stadium dei Mets si era deciso di tenere la bandiera a mezz’asta, tanto era diffusa la contestazione alla guerra in Vietnam. All’ultimo momento fu issata al suo posto per la protesta di un gruppo di veterani feriti in guerra, ma al reverendo Billy Graham fu sottratto il previsto lancio inaugurale per il suo sostegno dichiarato al presidente Nixon.
Così è andata la storia degli Stati Uniti, passata tutta per i campi da baseball, i “diamanti”. Questo è Donald Hall, scrittore: “Sapete quando volate in aereo da una costa all’altra, e guardate giù e vedete tutti quei piccoli diamanti dappertutto? Beh, ogni volta che ne vedo uno, il mio cuore è là. E so che laggiù non riesco a vedere le case e quasi nemmeno le strade qualcuno sta giocando al gioco che tutti noi amiamo”.
108. Le 108 cuciture, e le statistiche infinite e i record, e i cappellini, e le figurine, e gli eroi: l’epica e la mistica del baseball sono sopravvissute all’attacco di basket e football, sport più televisivi, più fisici, più moderni. È una fede, appunto. “La gente mi chiede cosa faccio d’inverno, quando il campionato è fermo”, disse una volta, ottant’anni fa, Rogers Horsnby dei Saint Louis Cardinals. “Beh, ve lo dico, cosa faccio: guardo fuori dalla finestra e aspetto la primavera”.